Stranger Things (miniserie di 8 puntate)
Non possiamo star via un mesetto, che nel bel mezzo di agosto ci siamo trovati di fronte al fenomeno mediatico dell’anno, brevemente ma puntualmente annunciato dal sottoscritto nelle ultime righe prima delle vacanze. Ideato dai fratelli Duffer (sconosciuti ai più, ma non c’è problema), uscito sulla piattaforma Netflix il 15 luglio, Stranger Things dopo soltanto un mese e mezzo è diventato l’argomento unico nelle chiacchierate e nelle sbrodolate tra appassionati di serie tv e cinema. La grande novità (forse l’unica) è il format utilizzato dalla piattaforma, che ha rilasciato tutta la serie completa, con durata delle puntate variabili dai 45 ai 60 minuti, lasciando allo spettatore il “compito” di serializzare la visione, e ottenendo il risultato che i più se la sono divorata in un giorno solo.
Ma come mai questo plebiscito? Come mai tutti restavano tristi, assetati e attoniti dal sempre prematuro finale di una puntata urlando un liberatorio “ma come, di già?!?!?”. I motivi sono due: Stranger Things è una serie perfetta, girata bene, recitata meglio, con ritmi cinematografici perfettamente adattati alla televisione e con elementi della trama sempre nuovi e avvincenti in ogni episodio; il secondo motivo è puramente sentimentale, perché la serie omaggia la cinematografia anni ottanta in maniera frontale e avvolgente, tanto che se dovessimo indovinarne gli autori diremmo “scritta da Stephen King, diretta da Steven Spielberg e musicata da John Carpenter” (non mi ricordo dove l’ho letta, ma non è mia purtroppo perché è LA definizione). La storia, ambientata nel 1983, vede al centro quattro bambini e la misteriosa sparizione di uno di loro, presenta un misterioso laboratorio e una strana bambina dagli strani poteri e forse anche una creatura proveniente da molto lontano. Già dalla trama si possono intuire i continui riferimenti al cinema anni ottanta, citiamo solo Stand By Me, i Goonies e La cosa ma i riferimenti sono talmente tanti da perdersi. Completano la furba ed entusiasmante operazione nostalgia un paio di ciliegine vintage nel cast, visto che ricompaiono magicamente attori come Winona Ryder e Matthew Modine che sembravano anche loro spariti nel nulla. Già accennato della colonna sonora elettronica fortemente influenzata dal cinema di Carpenter (che curava anche le musiche), che si alterna però con alcuni pezzi cult (e ruffiani) tra cui spicca l’allora tormentone rock “Should I Stay Or Should I Go”, legata ai gusti musicali del bimbo sparito. Se non lo avete ancora fatto, vi appassionerete alla storia ma soprattutto ai personaggi, ai bambini come agli adulti (c’è uno sceriffo niente male che merita una menzione), e odierete i cattivi come forse non facevate da trent’anni. Perchè è questo il punto, ST non ha bisogno di una DeLorean per farvi viaggiare nel tempo, lo fa con mezzi squisitamente cinematografici, in cui nulla spicca perché è tutto perfetto.
Una serie talmente furba che mi ha fatto scrivere una sviolinata tridimensionale, e il cui successo regalerà a tutti una seconda stagione: non sarà facile ripetersi, come altrettanto difficile pare realizzare qualcosa di più amato di questa cosa così strana e così straniera, almeno per quest’anno.