The Zero Theorem (di Terry Gilliam, 2013)
A me Terry Gilliam (classe 1940) piace tanto, tantissimo, fin dai tempi dei Monty Python. Mi sono fondamentalmente piaciuti tutti i suoi film, tra cui i grandi successi come L’esercito delle dodici scimmie e La leggenda del Re Pescatore, come anche i numerosi flop ottenuti, tra cui I banditi del tempo o Le avventure del barone di Munchausen. Ma il mio film preferito resta e resterà Brazil, classe 1985, capolavoro di fantascienza in cui l’autore riscrive l’universo orwelliano con incredibile lucidità e visionarietà. Brazil è un film che sta lentamente svanendo dalla memoria collettiva, e inesorabilmente invecchiando perché purtroppo un film futurista nel 1985 non può reggere in eterno. Lui e Blade Runner sono i capisaldi della fantascienza anni Ottanta, per cui vanno custoditi con gelosia e amore. Il teorema zero di Gillam riparte da Brazil, esattamente da quel mondo che il regista aveva così lucidamente immaginato 30 anni fa. E il colpo d’occhio, ahinoi, è subito inevitabilmente negativo, perché non si possono dimenticare in un sol colpo tutte le innovazioni tecnologiche degli ultimi anni. Il film si regge sull’idea di realtà virtuale non proprio degli anni ottanta ma sicuramente non più recente dei primissimi duemila, quando film di genere proliferavano per cinema o festival (chi riesce recuperi Thomas in Love, del 2000). Una volta accettata l’idea vintage di futuro, siamo certamente proiettati in un mondo bellissimo, colorato, creativo e permeato dall’idea amara (ma trita e ritrita) dell’uomo schiavo di macchina e azienda. Il protagonista, in attesa di una telefonata che gli sveli il senso della vita (gradita citazione dei Monty Python) viene incaricato di risolvere questo impossibile Teorema, in quanto sufficientemente alienato e obbediente per cercare di portare a termine l’impresa. La trama è un pretesto per raccontare ancora una volta un mondo orwelliano, ben supportato dagli attori Cristoph Waltz, Tilda Swinton, Matt Damon e soprattutto i comprimari Melanie Thierry e Ben Whishaw, ma che non va al di là di una presentazione fantastica. Col passare dei minuti routine e noia vengono fuori soprattutto per la mancanza di innovazione all’interno del film e per una certa prevedibilità narrativa che non fa altro che far girare la storia su se stessa. Amo Gilliam, il film è anche piaciuto in generale perché in realtà non ha niente per farsi odiare; ma il teorema è vecchio e Gilliam pure, e dopo i settanta anni è difficile fare grandi film. Kubrick è morto apposta prima.
Spazio Arene: Hitchcock/Truffaut
Nelle puntate precedenti abbiamo parlato di molti film, che nel corso di luglio e agosto verranno ripetuti senza problemi. Più difficile ora riconoscere le chicche e le novità. Per riprendere il discorso dei registi che difficilmente dopo i 70 anni sfornano grandi film, il maestro Alfred Hitchcock fa parte di questa schiera, visto che gli ultimi lavori non sono all’altezza dei livelli a cui ci ha abituato e visto che forse l’ultimo capolavoro può essere considerato Gli Uccelli (1963), realizzato ben prima dei 70 anni. All’Arena Borghesi di Faenza martedì 19 c’è Hitchcock/Truffaut, racconto della più celebre intervista cinematografica della storia del cinema dove il maestro si racconta come non ha mai fatto e da cui è stato tratto svariati anni fa un libro che tutti i cinefili custodiscono con cura, perché è l’unico libro di cinema ad essere terribilmente divertente! Il documentario che ha avuto poca visibilità in sala è un’occasione unica per conoscere due grandi protagonisti della storia del cinema.
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