Il bianco può accecare

Dal classicismo agli impressionisti fino alle avanguardie e ai contemporanei Adrian Piper e Kara Walker, vicende percettive e simboliche del cromatismo che rievoca la luce

A proposito del Design Week 2017 che si tiene a Milano i primi giorni di aprile e comprende il Salone Internazionale del Mobile negli spazi della Fiera vale pena concentrarsi sul Fuorisalone, dislocato in vari punti della città e incentrato su di un progetto promosso da Oikos, azienda artigianle nata nel 1984 a Gatteo a Mare che si è evoluta in impresa dagli orizzonti internazionali dedicata alla produzione di una vasta gamma di colori e materiali per rivestimenti ecologici e di alta qualità (se ne parla più diffusamente in un altro articolo di questa rivista).
Si tratta di cinque mostre a cura di Giulio Cappellini che coinvolgono grandi maestri dell’architettura, artisti, interior designers e giovani emergenti degli istituti di formazione che esprimeranno la loro personale interpretazione del “bianco“, un colore che ha una lunghissima storia artistica alle spalle, non sempre così lineare come si pensa.
Il bianco è il colore che ha affascinato intere generazioni del Grand Tour che dalla seconda metà del ‘700 attraversavano l’Italia e si avventuravano talvolta in Grecia abbagliate dal candore delle rovine classiche. Il colore fu talmente un must nell’immaginario europeo da inclinare il gusto contemporaneo per gli arredi delle case di lusso di tutta Europa. Peccato che il bianco fosse un colore residuale dovuto al passaggio del tempo e che i templi e le sculture antichi – dal periodo arcaico all’Ellenismo – fossero in origine completamente colorati di azzurro e rosso, con piccoli interventi di nero, verde, giallo, rosa e… bianco. In questo generale fraintendimento si colloca la produzione di sculture contemporanee neoclassiche e romantiche che privilegiarono la scelta del candore con qualche rara eccezione: Canova ad esempio era famoso per stendere una patina rosea sulle proprie sculture – oggi difficilmente leggibile – che doveva simulare il colore dell’incarnato in una sorta di sfida fra arte e vita.
Occorre aspettare le ricerche degli ottici ottocenteschi per comprendere che il bianco non è un colore ma una semplice somma di colori: è luce, la condizione per vedere i colori, così come il suo opposto, il nero, è il grado zero della visione. Di queste scoperte ne faranno tesoro gli Impressionisti che cercheranno di evitare l’uso del bianco e del suo contrario, cercando di utilizzare solo colori puri. A seguito, sullo scorcio del secolo, Seurat e Signac daranno vita al cosiddetto Neoimpressionismo – o Pointillisme secondo una dizione che a loro non piaceva – che traduce questa ed altre indicazioni scientifiche come il punto di partenza per la realizzazione di tutte le loro tele.
Arriviamo così alle riflessioni fra suono e colore di Vasilij Kandinskij che nello “Spirituale nell’arte” (1911) afferma come il bianco sia “il simbolo di un mondo in cui tutti i colori, come principi e sostanze fisiche, sono scomparsi”, un mondo così alto da impedirci di avvertire alcun suono. Per l’artista il bianco è come un “immenso silenzio che, tradotto in immagine fisica, ci appare come un muro freddo, invalicabile, indistruttibile, infinito”. Sembra assoluto, simile alle pause musicali – dice l’artista russo – che interrompono uno sviluppo di un tema o un discorso, ma è ricco di potenzialità, come un’origine che sta “prima della nascita”.

Kazimir Malevič, Quadrato bianco su fondo bianco, 1918, olio su tela, New York, The Museum of Modern Art

Non è strano che il secondo artista a misurarsi col bianco sia un altro russo – Kazimir Malevič, il fondatore del Suprematismo – che nel 1918 lancia la provocazione di un Quadrato bianco su fondo bianco in cui si distingue una forma geometrica inclinata e fuori asse, distinta da una sottile linea di contorno dallo sfondo, di una tonalità leggermente più calda. Il significato attribuito da Malevič sta nel contesto della sua idea di arte in cui gli oggetti o le loro rappresentazioni non hanno alcun senso: per lui, l’unica strada percorribile è rendere i moti dell’animo scaturiti dalle tensioni fra forme geometriche e spazio circostante. Le forme bianche sono la formalizzazione di un processo di conoscenza “di uno stadio più alto di ogni realtà”, un’affermazione che porta invariabilmente a pensare che ci sia solo un privilegio culturale a distinguere questo posizione dalla spiritualità dell’oro delle icone ortodosse così diffuse in Russia.
Ben diverso è l’interesse al bianco dello statunitense Ben Nicholson che negli anni Trenta aderisce al gruppo Abstraction-Création e inizia un rapporto intellettuale con il più anziano collega Mondrian, definendo in una serie di sculture a parete un linguaggio astratto in cui semplici geometrie bianche si autodefiniscono grazie al rilievo e alle ombre proiettate. Dopo la seconda guerra mondiale, il bianco è un colore sdoganato in campo artistico: lo vediamo  nelle sagome umane del pop artista George Segal che rende nei suoi calchi dal vero a grandezza naturale, simili ai frammenti di vita dei resti umani di Pompei, una quotidianità disumanizzata. Il colore è ormai diventato una sorta di tributo doveroso da parte di una generazione – sempre d’oltreoceano – interessata al Minimalismo e all’Arte concettuale: Robert Ryman ad esempio, tende ad interpretare il bianco non come un’esperienza interiore o spirituale ma come un metodo in grado di analizzare tutte le componenti dell’esperienza visiva.
Declinato anche nelle sue affinità alla luce o nelle sue valenze concettuali, negli anni ‘60 e ‘70 il bianco acquista anche una complessità politica. D’altra parte erano gli anni giusti e il tema del razzismo diventa centrale nella riflessione di numerosi artisti statunitensi, nel momento più internazionale dei movimenti dei diritti civili e della liberazione sociale. Adrian Piper (New York 1948) si è sempre interessata a questioni inerenti identità, razza e genere, affrontate tramite opere concettuali oltre a video e performances. Abituata a pensare che il personale è anche politico, nel 1981 Piper disegna autoritratti in cui esagera visibilmente gli elementi fisiognomici che appartengono allo stereotipo della razza nera, realizzati grazie alla mediazione fra la percezione di sè e quella restituita dagli altri. Suscitare reazioni nel pubblico è l’effetto di molti dei suoi lavori, come in Cornered – un’installazione del 1988 – in cui l’artista sfrutta l’estrema chiarezza della propria pelle per presentarsi su uno schermo mentre afferma di “essere nera”, un’asserzione contestata dall’apparenza fisica ma la cui ambiguità è rafforzata dall’esposizione di due certificati di nascita del padre, in cui si afferma – in uno – la sua appartenenza alla razza bianca e – nell’altro – a quella nera.


Virando all’attualità, Kara Walker (1969) affronta tematiche non distanti, ma con tecniche e argomentazioni diverse se pure sempre a partire dal colore bianco e dal suo opposto. Nella varietà di impiego dei media, sono famose le sue lanterne magiche e installazioni di silhouettes di carta che l’artista ha cominciato ad utilizzare dall’inizio degli anni ‘90. La scelta della tecnica non è ininfluente perchè dal tempo della sua importazione negli Stati Uniti nel corso del ‘700 ha avuto un lungo successo fra le classi aristocratiche e l’alta borghesia dove diventò una pratica insegnata alle signorine della middle class. Il legame storico di questa tecnica alla ritrattistica così come la semplificazione dei lineamenti fisiognomici e la riduzione al bianco/nero dello sfondo e delle sagome sono elementi che a livello simbolico restituiscono il riduzionismo su cui si basa anche la costruzione degli stereotipi razziali.
Whiteness e blackness sono i due termini che si confrontano nel lavoro di Walker, poco interessata a trattare l’appartenenza razziale in modo autoreferenziale: quello che muove il suo lavoro è l’analisi delle relazioni fra bianchi e neri dal punto di vista storico, emozionale, fisico, sessuale, razziale, in particolare dei contesti e modi di attivazione delle dinamiche di potere. Ambientate generalmente nel Sud degli States prima della guerra civile, le sue scenette mettono in scena una meta-storia, frutto della contaminazione fra realtà, letteratura, finzione e fantasia, secondo un procedimento metanarrativo ibrido che è simile nel processo di costruzione della memoria storica e delle identità razziali.
Violenza e soprusi sono mescolati ad una vena ironica che si accende talvolta di sarcasmo, ma l’inquietante che travolge lo spettatore è la relazione fra dominio sessuale e bestialità che ricade sui più deboli: donne e bambini di colore. L’humour evidente – mescolato a sessualità e violenza – non è però sufficiente a rendere accettabili le opere di Walker che mettono in scena dei veri e propri tabù, ovvero quel complesso di desideri e piacere – nel ventaglio più ampio delle componenti che arrivano alla pura devianza – collegato alla storia della schiavitù dei neri. Tutte le associazioni più triviali legate alla blackness emergono, esposte senza pudore. L’artista non cerca stigmatizzazioni morali ma una presa di consapevolezza del rimosso, una sana e rivalutabile vergogna, magari – dice l’artista – “per aver semplicemente creduto nel progetto del modernismo”.
In questo modo, si disfa in questi ultimi decenni la nostra sicurezza del bianco come colore del benessere e le sue associazioni a sinonimi di purezza, ad un candore che non è mai stato se non un’attribuzione culturale. L’arte è la migliore arma contro gli stereotipi, anche quelli attribuiti ad un colore così virginale.

AGENZIA MARIS BILLB CP 01 01 – 31 12 24
FONDAZIONE FLAMINIA BILLB TUFFO MARE UNIVERSITA 01 – 15 05 24
AGENZIA CASA DEI SOGNI BILLB 01 01 – 31 12 24
CONAD INSTAGRAM BILLB 01 01 – 31 12 24