Déco, la rinascita di uno stile

Vicende di un linguaggio estetico in auge negli anni ’30 del Novecento, tornato in sintonia col gusto attuale

Eileen Gray, foto d’epoca del salone dell’appartamento di Suzanne Talbot a Parigi (1920)

Nessuno se lo aspettava, soprattutto a causa dell’assuefazione visiva di tanti anni al minimalismo hi-tech dei nostri ambienti. Ma nell’altalena dei flussi e riflussi storici incentivati da un mercato che logicamente ha bisogno di favorire ricambi di gusto, sono riapparsi i mobili e gli arredi degli anni Venti e Trenta. Questo linguaggio che passa sotto il nome di Déco fa così la sua entrata nell’arredamento e negli accessori contemporanei con le sue classiche geometrie, i materiali pregiati e una distintiva attenzione al dettaglio, acquistando visibilità sulle riviste specializzate che consigliano di recuperare le linee sintetiche e di privilegiare il bianco e il nero, inframezzandoli con qualche tocco di colore pastello ed evidenziando magari la scelta di materiali raffinati. A conferma di questo rinnovato interesse fioriscono anche le mostre dedicate alla produzione artistica del periodo: da non perdere ad esempio quella che si aprirà ai Musei di San Domenico di Forlì a febbraio 2017, dal titolo sintomatico di “Art Déco. Gli anni ruggenti”.
Con una strana coincidenza di condizioni, a distanza di anni si ripesca uno stile che nasceva in un momento di crisi – appena finita la I Guerra Mondiale – e si diffondeva in tutta Europa e negli Stati Uniti, rimanendo in auge fino agli inizi degli anni Cinquanta, alla ripresa dei mercati dopo il secondo conflitto.
Il termine Déco, declinato rigorosamente alla francese, era nato da un’abbreviazione riferita allo stile che si era imposto a Parigi, all’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative e Industriali moderne del 1925. Ma già allora questo linguaggio – caratterizzato da forme lineari, asciutte e fortemente geometriche – era ormai un fenomeno esteso capillarmente in tutto il territorio europeo, dove però si potevano incontrare varianti sostanziali a seconda del paese e del decennio di riferimento. Cosa unificava quindi i progetti apparentemente così lontani di Gio Ponti e quelli di Pierre Legrain, la produzione ceramica di Richard Ginori e le tele di Tamara de Lempicka o gli interni di Eileen Gray? Solo alcuni sono gli elementi comuni a tutto il Déco fra cui il legame diretto fra questo stile e la precedente esperienza dell’Art Nouveau o Liberty che dir si voglia che non distingueva fra arti maggiori e minori, era altrettanto attenta ai materiali e veicolava una stretta collaborazione fra arte, artigianato e industria. Di nuovo e caratterizzante, il Déco possedeva una vera e propria vocazione estetica alla modernità, intesa come amore per tutti gli aspetti della vita contemporanea e i suoi corollari di lusso come automobili, aerei e macchine di tutti i tipi.

I colori squillanti e i materiali pregiati diventavano i simboli del flusso elettrizzante delle metropoli e della mondanità.

Fin dagli inizi degli anni ‘20 vengono quindi messe nel surgelatore le classiche linee serpentinate e curve dell’Art Nouveau superando la centralità della natura “maestra” che aveva arricchito di foglie e fiori l’architettura e il design dei decenni precedenti. Se in alcuni casi si mantiene come in Italia la decorazione floreale, non può che essere tradotta in tagli geometrici e linee essenziali, sugli esempi delle precoci anticipazioni dell’architetto Charles Rennie Mackintosh e delle Wiener Werkstätten. Il punto di approdo del Déco – il cui apice verrà raggiunto negli anni Trenta – è una forte sintesi che bandisce qualsiasi eccesso di ornamentazione: se in Italia il rigore viene attinto in parte da una rinnovata attenzione al passato e alla classicità, dall’altra è l’attrazione alla modernità giocata internamente al Futurismo e al razionalismo meno asservito al potere a svolgere un ruolo di primo piano per il design e gli arredamenti di quegli anni. Non tutti gli aspetti del Déco europeo collimano: in Francia si attesta un linguaggio meno severo, ispirato alle leziosità dell’epoca di Luigi XVI mentre negli altri paesi le spinte al modernismo spesso vengono sostenute come in Italia dal movimento razionalista e dalle Avanguardie.
Nonostante lo spirito essenzialista, nelle pieghe del Déco si annida l’opulenza de Il Grande Gatsby e lo spirito di avventura di Howard Carter, l’archeologo che nel 1922 aveva scoperto in Egitto la tomba di Tutankhamon accentuando una vena esotica nelle case europee. Se l’orientalismo aveva già avuto fiorenti estimatori nei decenni passati, il Déco evita l’eccesso lineare e l’afflato mistico dell’Art Nouveau apprezzando le linee più severe degli oggetti del Giappone e dell’arte precolombiana o la ricca decorazione dei reperti egiziani.
Non sono solo le scoperte archeologiche o i viaggi in nuovi insediamenti artistici in Sud America a rinfocolare l’attenzione verso il primitivismo e il mondo orientale. Le colonie europee e la diffusione di un mercato più globale favoriscono l’importazione di materiali pregiati come le lacche e le decorazioni a foglia d’oro dal Giappone, la giada dalla Cina, i legni come la palma o il macassar indonesiano. L’incremento dello sviluppo tecnologico si lega così ad una preferenza accordata a materiali lussuosi come l’ebano e la radica di noce, o del tutto inusuali come la pergamena o il galuchat (la pelle di squalo) utilizzato per i rivestimenti. Soprattutto negli anni Trenta, tutto deve essere intonato alla modernità e per questo si preferiscono la brillantezza del metallo cromato o galvanizzato e l’acciaio. La luce, ora intesa come un elemento fisico, acquista un ruolo di primo piano incanalandosi in cristalli piegati e favorendo l’evanescenza delle pareti che vengono realizzate in vetrocemento. Alluminio e nuove leghe come l’anticorodal sono impiegate per scatole, piatti, profilati e sculture, mentre al posto dei materiali naturali si utilizzano imitazioni di resine, avoriolina, buxus (finto legno), linoleum e bachelite.

Il mondo moderno – dall’arredo ai gioielli – è fatto di plastica e cellulosa che si adeguano a forme sobrie ed eleganti.

Tutta la gamma di colori – purchè in toni squillanti e ben definiti – è ampiamente utilizzata per oggetti di design, mobili d’arredo, gioielli e vestiario, ma un certo favore rimane al nero, all’oro e al bianco, soprattutto per le loro caratteristiche di nettezza e definizione.
Ricostruire anche in breve il Déco italiano è un’impresa che sta fra l’arduo e l’impossibile: per l’arredo e le arti applicate i nomi di Gio Ponti, Richard-Ginori, Duilio Cambellotti, Marcello Piacentini, Giuseppe Pagano, Gino Levi Montalcini e Giovanni Muzio sono solo l’inizio di una lunga lista di autori i cui progetti compaiono in modo ricorrente nelle varie esposizioni di arte decorativa a Monza (1923-28), poi trasferite agli inizi del nuovo decennio a Milano col titolo di Triennali. Saranno proprio queste manifestazioni sempre meno caotiche e via via più indirizzate alla modernità sotto la guida di Gio Ponti, Mario Sironi e Alpago Novello, a concorrere alla definizione del linguaggio Déco insieme ad una miriade di interventi, oggetti e progetti di arredo realizzati nel corso del Ventennio. Tolte le eccezioni dei grandi e numerosi interventi pubblici sono le committenze private a fare la storia del design italiano, come quelle dell’aviatore ed eroe nazionale Arturo Ferrarin, i cui arredamenti di casa vengono affidati a Franco Albini, uno dei padri del Razionalismo di casa. D’altro canto, il nuovo linguaggio trova facile sponda nella politica nazionale che sostiene l’idea di una creatività “italiana” incarnata nelle produzioni di ditte prestigiose come la già citata Richard-Ginori, la cui fabbrica fiorentina specializzata in oggetti in ceramica viene guidata in questi anni da Gio Ponti. Fra le altre aziende che si costruiscono un posto di rilievo, vanno ricordate anche la Rinascente, la Rometti di Umbertide per la produzione ceramica, la Luigi Fontana e la Dassi, entrambe di Milano, indirizzate alla produzione di mobilio e oggetti in vetro. L’obiettivo politico è anche economico: adeguare il passo di un’Italia in seconda fila a quello delle altre potenze mondiali, sottolineando contemporaneamente il cambiamento del paese  in senso moderno.
Il momento più importante all’epoca per rinnovare gli arredamenti e corrispondere al gusto moderno che fioriva nelle pagine della rivista Domus, era il matrimonio. Per un’occasione simile Marcello Piacentini abbandona la sua mano – così pesante nell’innalzare edifici – quando viene chiamato a ideare gli arredi per Fiammetta, la figlia della più nota intellettuale Margherita Sarfatti. Nel 1931, in occasione del matrimonio della giovane, l’architetto romano realizza una serie di mobili in legno d’abete e compensato, dalle linee geometriche sottolineate da uno squillante color rosso all’anilina che ricorda le decorazioni in lacca. Meno appariscenti ma sempre ricercate appaiono le contemporanee progettazioni di Gio Ponti per la Rinascente, che nei suoi vari punti vendita cerca di imporre un nuovo gusto moderno, alla portata delle tasche del ceto medio.
Il successivo disinteresse del mercato nei confronti del Déco ha fatto in modo che numerosi pezzi di mobilio siano rimasti nelle soffitte di casa o nelle case dei nonni. È allora il caso di rivolgersi oggi al mercato antiquario su internet per acquistare una bella lampada o una poltrona – al momento si trovano numerosi oggetti a cifre abbordabili – per inserirli nell’arredo di casa in omaggio alla nuova tendenza.
Pochi soldi? Allora provate a rovistare in solaio. Come si suppone avvenisse in varie provincie italiane, anche qui in Romagna esisteva una versione autarchica e locale del Déco: non ci riferiamo alla produzione della ceramica faentina che vive una fase di splendore, ma alle poco note ditte artigianali che realizzano mobili: come la semisconosciuta fabbrica dei Fratelli Morgagni di Godo di Russi che nel 1934 vendeva a una giovane coppia di sposi di Ravenna il salotto e la camera da letto. Il linguaggio dei grandi architetti si appiana, i materiali moderni si assottigliano – invece della radica integrale sarà una più modesta “lastronatura” – ma nei mobili della provincia rimane viva l’aderenza allo stile contemporaneo nella scelta del divano detto “ottomana” – un omaggio all’esotismo –, nei bei tessuti che ricordano le linee astratte dei Futuristi, nella prevalenze geometriche degli schienali o nelle decorazioni floreali geometrizzate delle vetrinette delle credenze.

“Ottomana” e sedia Déco, della Ditta F.lli Morgnagni di Godo di Russi (1934). Viste generali e di dettaglio

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