La brutalità del presente e la mollezza del passato

Riflessioni sul parcheggio di Maurizio Sacripanti a Forlì

«In quell’appartamento mancava l’aria, e io avevo bisogno di fare quattro passi in un parcheggio per schiarirmi le idee»

James G. Ballard, Regno a venire, 2006

Maurizio Scarpinati, Parcheggio di piazza Guido da Montefeltro a Forlì, foto di Pietro Berberini. Nella piazza si è tenuta dal 10 al 12 giugno la festa di Radio3 Arte, cultura, lavoro.

«Questa sommaria descrizione delle otto “idee” prevalse a Forlì attesta il potenziale immaginativo sfruttabile per la ristrutturazione degli insediamenti antichi. Nessun concorrente ha assunto un atteggiamento rinunciatario. I migliori convalidano la tesi che solo un impegno creativo coraggioso, anticonformista, garantisce, nel gioco delle dissonanze, il pieno rispetto del passato. Il dibattito dei prossimi mesi trae concretezza e vigore da tale premessa. C’è da scommettere che approderà in un risultato esemplare di cui il Comune di Forlì potrà essere fiero».1

Così un ottimista Bruno Zevi – storico dell’architettura e celebre, puntuto critico della rubrica “Cronache di architettura” del settimanale “L’Espresso” – scriveva nel lontano 4 aprile 1976, a proposito del concorso per il nuovo teatro di Forlì, previsto nella piazza Guido da Montefeltro in un «vuoto informe e slabbrato dove sorgeva uno stabilimento industriale di cui spicca ancora la ciminiera».2 Lì accanto, «il maestoso convento di San Domenico»,3 allora deposito militare, il convento di Sant’Agostino, caserma della finanza e la «preziosa chiesetta di San Sebastiano».4 Tra questi progetti finalisti, quello – poi vincitore – dell’architetto romano Maurizio Sacripanti (Roma, 1916-1996) (con Romano Carrieri, Luigi Vignali, Roberto Fregna, Maurizio Decina e Giulio Perucchini), era certamente quello più innovativo, sulla scia del capolavoro irrealizzato, di dodici anni prima, per il concorso del nuovo teatro lirico di Cagliari,5 vero e unico erede del Total Theater di Walter Gropius (1927), la “macchina” teatrale concepita e mai realizzata per Erwin Piscator.
Definito dallo storico dell’architettura Manfredo Tafuri, un «oggetto mutante che funge da ermetico foro per la città»,6 il progetto forlivese viene descritto da Zevi come «una macchina dotata di pavimento e soffitto a componenti mobili, che consente di modellare, volta per volta, la cavità idonea per le specifiche rappresentazioni e cerimonie, o di annullarsi espandendo la piazza. Aggressività d’avanguardia, squillante e ottimistica, fiduciosa nell’aleatorio; schietta volontà di rottura, conscia però del contesto tanto da incuneare l’accesso principale nell’ex convento di Sant’Agostino».7 Compito difficile quello di ricucire «uno strappo urbano di settemila metri quadrati con un intervento polifunzionale in grado di recuperare gli antichi conventi di Sant’Agostino e San Domenico, connettendoli ai nuovi parcheggi coperti e ai giardini fluviali».8 Del resto, come ha affermato lo stesso Sacripanti, «Tutto il lavoro di un architetto moderno è un progetto del mondo concreto che nasce come necessario sviluppo del passato sottoposto a tensione».9

Sopra schizzi e planimetrie di Maurizio Sacripanti per Teatro di Forlì

La soluzione più geniale e più azzardata era questa: collocare il «palcoscenico nell’ex chiesa e la sala nel primo chiostro», creando «un pezzo di città nella città».10 Troppo, per Forlì? (ma anche per Ravenna, per la Romagna, per l’Italia…). Evidentemente sì, tant’è che gl’«infiniti progetti e varianti, che hanno seguito la vittoria del concorso, non saranno sufficienti per la realizzazione del complesso, anche se un comitato pro teatro ha vinto l’ennesimo ricorso, anche dopo la scomparsa del progettista. Perché Sacripanti, nelle menti di molti, è ancora vivo».11

Maurizio Sacripanti, Progetto per il concorso del padiglione italiano all’Esposizione Internazionale di Osaka del 1970 (con Andrea Nonis, Maurizio Decina, Giulio Perucchini, A. Latini, Achille Perilli, Renato Pedio, Giancarlo Leoncilli).

Se il teatro non è mai stato realizzato, il “risarcimento” dato a Sacripanti nel 1980, con la realizzazione del suo eccezionale parcheggio antistante al complesso del San Domenico (al posto del teatro, come si sa, oggi c’è il Museo), ha corso il rischio – con l’approvazione, nel 2009, del piano urbanistico attuativo relativo alla piazza Guido da Montefeltro – di essere cancellato. Così Forlì avrebbe completato la damnatio memoriæ del sogno utopico-megastrutturale12 di Sacripanti.

Sulla straordinarietà del progetto, a sventare, se possibile, ulteriori pulsioni distruttive, c’illumina ancora Zevi. L’irrealizzata “macchina teatrale” sfocia nella piazza «con un processo di dilatazione»: «La piastra a varie quote – del parcheggio – contenente garages, servizi ed attraversamenti pedonali, possiede un valore estetico autonomo».13 Già subito dopo la sua costruzione, questo progetto «non mimetico, originale, figurativamente coraggioso, è stato attaccato da un’insulsa stampa»,14 ma, incredibile visu, «sessantacinque professionisti di Forlì, Cesena, Rimini, Modena e Ferrara sono scattati a difenderlo, evento senza precedenti»,15 con la motivazione: «Questo è il primo comune italiano che si preoccupa di costruire un vero parcheggio, in un disegno concepito esplicitamente per l’auto e per l’uomo che la usa».16
Sacripanti ha immaginato più livelli per il suo parcheggio: una “piastra”-piazza sopraelevata, pedonale – che sembra “abbracciare” l’ex complesso monastico per via della forma leggermente arcuata ai lati – che contiene, al di sotto, il parcheggio coperto; e tre zone di parcheggio più basse. In questo modo, dalla piazza superiore non si vede il parcheggio sottostante, ma soltanto la linea delle case del centro storico. Così, inversamente, dal basso, il San Domenico è “incorniciato” dai dentelli in cemento che fungono da parapetto della piazza superiore. Un gioco prospettico complesso e attentamente studiato.

A difesa del progetto, negli ultimi anni,17 è sceso in campo Alfonso Giancotti, presidente della Casa dell’Architettura di Roma e frequentatore dello studio di Sacripanti negli ultimi anni di attività. Alla domanda dell’intervistatore se non sia lecito modificare un progetto quando questo non piace più agli abitanti (i muretti graffiano le carrozzerie delle auto, il parcheggio coperto è troppo buio e dunque “insicuro” ecc.), Giancotti ha risposto: «Credo che Sacripanti sarebbe stato il primo ad accettare la trasformazione del parcheggio qualora non fosse risultato adeguato alle dinamiche della città. Ne sono convinto. […] Sacripanti ha parlato della necessità che lo spazio della città contemporanea venga “ convissuto”, ha teorizzato la progettazione del “mutevole”, figuriamoci se mai si sarebbe opposto a un’azione di trasformazione. Anzi l’avrebbe incoraggiata e ne sarebbe rimasto entusiasta. Se quello spazio fosse a Parigi, ci sarebbe una competizione sfrenata per trasformarlo in uno spazio per l’arte contemporanea. La città di Forlì, promuovendone un recupero intelligente, potrebbe rappresentare un esempio virtuoso che la metterebbe allo stesso livello delle maggiori capitali europee. […] Sacripanti ha scritto che “progettare significa passare da un aspetto storico a un altro, attraverso la scoperta di nuove relazioni, nuovi segni, e l’impegno di un architetto sta nel muoversi, cosciente, entro una diagnosi del nostro essere nella storia, verso la storia che produciamo”».18 «Progettare il mutevole»,19 è sempre stato il fine di Sacripanti.

È vero, anche il grande Le Corbusier, a fronte dei cambiamenti operati dagli abitanti nelle case di Frugès a Pessac, da lui progettate (1924-1929), aveva riconosciuto: «Vous savez, c’est toujours la vie qui a raison, l’architecte qui a tort».20 Ma un conto è trasformare, un altro picconare. In una società come la nostra, in cui si preferisce alla «durezza» e alla «brutalità»21 del Moderno, «la mollezza del passato da cui è scomparsa ogni contraddizione»,22 è sempre il tempo più recente che rischia di farne le spese. Senza sapere che proprio i parcheggi sono il vero “nonluogo” del XX (e probabilmente anche XXI) secolo, come un altro grande lucido osservatore del nostro tempo, James G. Ballard, aveva perfettamente compreso: «mentre procedeva veloce, Wilder guardava di sfuggita dalle finestre il parcheggio, che spariva pian piano dalla sua vista».23

Note

1. Bruno Zevi, Un teatro con 8 suggeritori, in “L’Espresso”, XXII, n. 15, 11 aprile 1976, pp. 77, 79: 79, ora in Id., Cronache di architettura, vol. 19 (nn. 1081-1130), Bari, Editori Laterza, 1978, pp. 165-169: 169 (col titolo: Otto dissonanze per rispettare un contesto e con l’aggiunta dell’aggettivo «gioioso» dopo «coraggioso»).
2. Ibid., p. 165. Evidentemente “sacrificata” in corso d’opera. La fabbrica si chiamava Bonavita e produceva feltro. Ringrazio l’amico Pietro Barberini per l’informazione.
3. Ibid.
4. Ibid.
5. I cui disegni sono conservati al MoMA di New York.
6. Manfredo Tafuri, Storia dell’architettura italiana: 1944-1985, Torino, Giulio Einaudi editore 1982 e 1986, p. 121, nota 79. Ma, dello stesso autore, si veda Un teatro per Forlì, in “Paese Sera / Arte”, 5 febbraio 1978, p. 20.
7. B. Zevi, Un teatro con 8 suggeritori, cit., p. 79.
8. Bruno Zevi, Quando parcheggiare diventa uno spettacolo, in “L’Espresso”, XXXV, n. 36, 10 settembre 1989, p. 123.
9. Citato ibid.
10. Alfonso Giancotti, Renato Pedio, Maurizio Sacripanti: Altrove, Torino, Testo & Immagine, 2000, p. 68.
11. Ibid., pp. 68 e 72.
12. Come ha scritto Claudia Conforti (Roma, Napoli, la Sicilia, in Storia dell’architettura italiana: Il secondo Novecento, a cura di Francesco Dal Co, Milano, Electa, 1997, pp. 176-241: 217), «[…] Sacripanti ha anticipato, in una versione piranesiana pervasa di angoscia, le fantasie tecnologiche degli Archigram e le immagini High-tech degli anni ottanta». Con qualche dubbio sul termine «angoscia» come cifra dei progetti dell’architetto. A quest’utopismo appartiene, a tutti gli effetti, un altro capolavoro irrealizzato di Sacripanti: il progetto di concorso (1968-1969) per il padiglione italiano all’Expo di Osaka del 1970, risultato non vincitore.
13. B. Zevi, Quando parcheggiare diventa uno spettacolo, p. 123.
14. Ibid.
15. Ibid. Come mai Zevi non cita Ravenna? Una semplice dimenticanza o il segno che il “campanilismo”, una volta di più, ha prevalso sulla solidarietà?
16. Ibid.
17. Nel 2009, con un “Appello per la salvaguardia della piazza parcheggio di Maurizio Sacripanti a Forlì” (cfr. http://ordine.architettiroma.it/notizie/11929.aspx).
18. Difendere Sacripanti: Intervista a Alfonso Giancotti, in “Seigradi: Connessioni Culturali”, http://www.seigradirivi sta.it/interviste.php?id=57 [data di ultima consultazione: 25 maggio 2016]. Ma si veda anche Alessandro Lontani, Marta Ricci, Piazza parcheggio Guido da Montefeltro: Quando parcheggiare è uno spettacolo, in “Seigradi: Connessioni Culturali”, n. 4, 2013, ivi. Il testo più importante di Sacripanti è Città di frontiera / frontier city, Roma, Bulzoni editore, 1973.
19. Ibid., pp. 4-11: 8.
20. Citato in Philippe Boudon, Pessac de Le Corbusier: 1927-1967: Étude socio-architecturale, Paris, Dunod, 1969, p. 2.
21. Di «poetica del brutto», a proposito dell’architettura di Sacripanti, ha parlato Manfredo Tafuri in Manfredo Tafuri, Francesco Dal Co, Architettura contemporanea, Milano, Electa Editrice, 1976, p. 419, nota 3.
22. Le parole e la frase sono estratte dalla formidabile pagina di Thomas Bernhard, Holzfällen: Eine Erregung, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1984, trad. it. di Agnese Grieco e Renata Colorni, A colpi d’ascia: Una irritazione, Milano, Adelphi edizioni, 1990, p. 169.
23. James G. Ballard, High-rise, London, Jonathan Cape, 1975, trad. it. di Paolo Lagorio, Il condominio, Milano, Anabasi, 1994, p. 79, corsivo mio. Non senza ironia, Ballard scriverà nel suo ultimo romanzo (Kingdom come, 2006, trad. it. di Federica Aceto, Regno a venire, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 11): «Avevo lasciato la Jensen nell’autosilo, una gigantesca costruzione di cemento a dieci livelli inclinati che dominava la città e, a suo modo, più misteriosa del labirinto del Minotauro di Cnosso, dove mia moglie, con un’uscita alquanto bislacca, aveva proposto che andassimo per la nostra luna di miele. Ma la presenza di quell’enorme struttura non fece altro che avvalorare che il parcheggio stava ormai diventando la più grande esigenza spirituale del popolo britannico».

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