Il tempo in cui il pugile danza sul ring

Give Me Five

Cassius Clay (alias Muhammad Ali) in un hotel di Londra il 27 maggio 1963, foto di Len Trievnor

«Sono affascinante, veloce, praticamente imbattibile»
Muhammad Ali

Nel mese di marzo del 2016 la rassegna cinematografica “Per non morire di televisione”, ideata dall’amico Fabrizio Varesco, dedicò una serata alla boxe ed ebbi l’occasione di assistere alla proiezione del documentario Corde, la storia del pugile napoletano Ciro Pariso raccontata del regista Marcello Sannino. Lo scorrere della pellicola mi riportò a una luminosa domenica primaverile del 1967 in cui ebbi l’occasione di conoscere il campione dei pesi massimi Primo Carnera, da poco rientrato dagli Stati Uniti, a Spilimbergo. In un elegante salotto che si affacciava su un ampio giardino, quel gigante d’uomo parlava e io, allora bambina, seduta poco distante, ne osservavo incuriosita i piedi enormi, immobili e lui ogni tanto abbozzava un sorriso velato da smorfie di dolore verso di me. Trascorsero pochi giorni e, a causa di una cirrosi epatica allo stato terminale, Carnera cessò di vivere e fu sepolto nella chiesetta di Sequals, tra una marea di folla e di sportivi.
Finito di vedere il documentario su Ciro Pariso, uscendo dal Palazzo del Cinema e dei Congressi decisi che volevo scrivere di pugilato. Poi, però, me ne sono anche dimenticata.
Nello scorso mese di maggio, ho partecipato all’incontro dal titolo L’avventurosa storia della boxe nel cinema, organizzato sempre nello stesso luogo tenuto e sempre dall’amico Varesco; in quell’occasione è riaffiorata in me l’intenzione andata persa. Decido quindi di raccogliere idee e informazioni sull’argomento: è giunto il momento di scrivere di pugilato.

«La boxe non significava niente.
Non aveva proprio nessuna importanza.
La boxe era solo un mezzo
per farmi conoscere al mondo»
Muhammad Ali

Inizio in modo scontato con uno sguardo alla vita di Cassius Clay alias Muhammad Ali, il mito che più di ogni altro ha incarnato lo spirito della boxe nell’immaginario collettivo. Scopro così che a lui interessava vivere, mostrarsi al mondo, dire quello che riteneva giusto dire, fare ciò che andava fatto, e che scriveva poesie sui suoi avversari. Il suo soprannome era The Greatest: su 56 incontri ne perse 5. Dopo il periodo della leggerezza, in cui ballava sul ring e nessuno riusciva a colpirlo, nel 1967 subì un esilio forzato per essersi rifiutato di partire per il Vietnam, decisione che gli costò una condanna a 5 anni di carcere anche se non finì mai in cella: «I got nothing against the Vietcong, they never called me nigger» (Non ho niente contro i Vietcong, nessuno di loro mi ha mai chiamato negro).
Nel 1970 Clay dichiarò: «Ero determinato a essere il negro che i bianchi non avevano avuto». Un incontro decisivo per la sua vita e la sua carriera fu quello con il leader per i diritti degli afro-americani, Malcom X. Un rapporto che avrà un’influenza enorme su Cassius Clay, sulla sua trasformazione in Muhammad Ali, sulla sua conversione all’Islam e sulla sua lotta contro il potere. Nel 1971 egli tornò sul ring e quello fino al 1978 fu forse il suo migliore periodo. Il suo match contro George Foreman del 1974 è ricordato nello splendido libro di Norman Mailer The Match come il più grande incontro nella storia della boxe. Lentamente iniziò a cambiare il modo di affrontare gli avversari: continuava a colpirli, anche se non ne schivava più tutti i ganci e i jab: imparò a incassare. Gianni Montieri, nell’articolo I tre finali di Muhammad Ali (“Doppiozero”, 5 giugno 2016) scrive così di lui nel giorno della sua scomparsa: «Ali è una leggenda dello sport, come Michael Jordan o Diego Maradona, ma è stato anche qualcosa di più. Per lui scrivere la storia sportiva è stato un passaggio per scriverne un’altra decisiva, che ci riguarda tutti».

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Primo Carnera, foto di Luis Ramón Marín

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Arturo Gatti

Per approfondire le mie limitatissime conoscenze parto dal libro Sulla boxe della scrittrice americana Joyce Carol Oates, pubblicato nel 1987 dalla casa editrice E/O, con la traduzione di Annarosa Miele. Si tratta di una raccolta di saggi, che ripercorre la storia della boxe dai giochi gladiatori dell’antica Roma al pugilato a mani nude praticato in Inghilterra fin dal diciottesimo secolo; dai combattimenti tra schiavi nell’America della Secessione alle sfide tra i fuoriclasse entrati ormai nella leggenda come Jack Johnson, Joe Louis, Jack Dempsey, Muhammad Ali e Mike Tyson.
La Oates racconta la sua passione per il pugilato, nata grazie al padre che la portò a un torneo di boxe del Golden Gloves a Buffalo, agli inizi degli Anni ‘50: «Scrivere di boxe è come scrivere di sé stessi – anche se in forma ellittica e quasi senza volerlo […] costringe ad avere davanti agli occhi non solo la boxe, ma anche le demarcazioni della civiltà: cosa significa, o dovrebbe significare, essere “umani”. […] Come fai a divertirti con uno sport così brutale, mi chiedono a volte. O volutamente non chiedono. Ed è troppo complicato rispondere. In ogni caso, io non mi diverto con la boxe nel senso comune della parola, e mai mi ci sono divertita: la boxe, poi, non è sempre e comunque brutale, e io non la considero uno sport. Allo stesso modo non mi riesce di pensare alla boxe in termini letterari come metafora di qualcos’altro. Chi come me ha cominciato ad appassionarsi di boxe da bambino […] è improbabile che la consideri il simbolo di qualcosa che la trascende, come se la sua particolarità stesse nell’essere sintesi o immagine di altro. Posso però valutare l’idea che la vita sia a una metafora della boxe […], il genere di metafora letteraria dell’inferno. La vita è come la boxe per molti e sconcertanti aspetti. La boxe però è soltanto come la boxe. […] Anche se un incontro di boxe è una storia senza parole, questo non significa che non abbia un testo o un linguaggio, che sia in qualche misura “bruto”, “primitivo”, “inarticolato”, ma soltanto che il testo è improvvisato nello svolgimento; il linguaggio è un dialogo sofisticatissimo tra i pugili (si potrebbe dire sia neurologico sia psicologico, fatto di riflessi di frazioni di secondo), i quali reagiscono concordi al misterioso desiderio del pubblico, che è sempre quello di un incontro di buon livello che gli permetta di rimuovere, dimenticare, tutta la crudezza dell’allestimento scenico: ring, luci, corde, il tappeto macchiato, gli stessi spettatori con lo sguardo fisso. (Proprio come in teatro o in chiesa, dove l’allestimento scenico dovrebbe essere rimosso dall’azione trascendentale) […]».

Alla prosa ho affiancato la lettura della raccolta di poesie All Over (Mimesis, 2013) del curatore d’arte Gabriele Tinti, la cui produzione letteraria ha per tema la boxe; in questo caso si tratta di una serie di ritratti funebri, di epigrafi che si sviluppano come tragedie in forma di versi, di lamenti. A venir cantata non è la vittoria ma la sconfitta dell’eroe che qui è fragile, isolato e sconfitto. Morto: «Cantando la morte quel che sembrava un’epica si rivela invece essere una lunga serie di epigrafi, una poesia sepolcrale». Secondo l’autore pugni e combattimento sono ad alto contenuto poetico : «La boxe non è semplicemente uno sport. È rappresentazione originaria. Il dispiegamento di un’esperienza esistenziale – ogni volta nell’accadere – irripetibile, di una realtà “vera”, di un mondo all’interno del quale non c’è in gioco soltanto il corpo, le sue affezioni, la carne ma anche l’intelletto, lo spirito, la così detta “cultura”. Il pugilato se ne frega di ciò che fonda gli altri linguaggi “d’arte”, del logos […]». Tinti racconta inoltre di essere rimasto particolarmente colpito quando vide Arturo Gatti combattere in America e di come «il pubblico provasse una prossimità fraterna, un rapporto d’intimità fondato sul riconoscimento di quanto egli si donasse, di quanto si mettesse in gioco, a nudo, col proprio carico di dolore, di gioia, di solitudine, d’amore. Arturo Gatti non ha mai davvero perduto. Gatti era la boxe, era tutto stile, affettività maledette, sudore amato e sangue sversato. Chi si porta fino a queste latitudini dello spirito e della conoscenza, chi rischia tanto merita tutta la devozione di cui noi siamo capaci. Credo lui sia stato uno delle personalità più importanti, uno dei maggiori artisti del periodo a cavallo tra il XX e il XXI secolo» [“La boxe è poesia”, versi e filosofia si sfidano sul ring. INTERVISTA, in http://www.affaritaliani.it/]. È, come scrive sempre Tinti in un altro articolo, «lo spettacolo crudele, fatto di dolore e di amore, d’imprevedibilità e di gravità, di noia e di grandi emozioni. Lo spazio all’interno del quale confluiscono i nostri sentimenti repressi, le nostre paure, le nostre ansie identitarie» [Muhammad Alì. Il ricordo di Gabriele Tinti, in www.arttribune.com del 6 giugno 2016].

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Una sequenza del film Toro scatenato (Raging Bull), 1980, regia di Martin Scorsese

Il libro Il pugilato per tutti e tutte. Storia, filosofia e istruzioni pratiche per la boxe nelle palestre popolari (Edizioni Hellnation, 2016) di Giuni Ligabue, autore e regista indipendente, che insegna e pratica pugilato in una palestra bolognese, mi permette di conoscere un movimento nato dal basso, nelle sale da boxe popolari. Dal libro si evince la necessità, per questa disciplina, di essere intesa come uno sport per tutte e per tutti, un modo per prendersi cura del proprio corpo e della propria testa ma anche una pratica utile a conoscere i propri limiti, e a superarli, nel più rigoroso rispetto degli avversari. Una dimensione etica che intende cambiare il modo di concepire il pugilato, facendo i conti (e meno male) anche con gli stereotipi di genere e l’intero modo di pensare e praticare questo sport.
I Maestri Borgogni (padre e figlio) di Siena da decenni sono intenti a trasmettere la cultura della non violenza ai giovani che si alternano nell’apprendimento della disciplina, maturando l’idea che sia possibile prevenire gli atti di bullismo giovanile solo se si interviene educativamente su chi potenzialmente è in grado di commetterli, se lo si aiuta cioè a formarsi caratterialmente in maniera tale da renderlo capace di conoscere la propria aggressività e le proprie paure, dalle quali essa trae origine, per essere in grado poi di controllarla nel momento in cui essa sta per essere innescata.
Leggo ancora del progetto “La scuola al centro” e di un “ring” avviato nel 2016 all’interno dell’Istituto tecnico Galilei di Milano e finanziato dal Ministero per prevenire la dispersione nelle periferie. Nei mesi estivi, l’Istituto ha affiancato ai corsi di recupero delle materie curriculari anche allenamenti di boxe rivolti ai ragazzi che avevano giudizi sospesi da recuperare a settembre. Accanto a un rafforzamento sui calcoli o sul vocabolario di italiano e di inglese, venivano affiancate lezioni di gancio e diritto. «Più che box facciamo box leggera. Non ci colpiamo, insegno ai ragazzi a parare i colpi, a prendere un guanto bianco sospeso a diverse altezze, a muoversi come sul ring. Ma senza farci male. Gli studenti sfogano l’aggressività e si sentono coinvolti», racconta il professore di Scienze motorie Nicola Fragnito [www.ilgiorno.it].
Simona Galassi, campionessa europea dei pesi mosca EBU nel 2007 e nel 2013, campionessa mondiale dei pesi mosca WBC nel 2008, 2009, 2010 e 2011 e dei pesi supermosca IBF nel biennio 2011-2012, in un’intervista del 2014, alla domanda su quali sono gli stereotipi più frequenti con cui le tocca fare i conti, risponde: «L’insolenza di certi ragazzi, per esempio, che appena arrivano in palestra mi guardano con aria di sfida e dicono che gli piacerebbe fare un match contro di me. O le domande di certi giornalisti: alcuni, con aria sbalordita, mi chiedono come mai una donna fa pugilato o se i pugni fanno male. È triste ammetterlo, ma in Italia c’è ignoranza sportiva» [Intervista a Simona Galassi, la regina del pugilato italiano, in pasionaria.it].
E dunque ho raccolto qualche frammentaria informazione su questo sport che in qualche modo, e per diverse ragioni, m’incuriosisce: nella boxe convergono creatività, astrazione, simbolismo della danza, concretezza, emozione, passione, tutte componenti che come abbiamo visto possono essere utilizzate anche per la gestione dei conflitti.
La mia militanza femminista e in ambiti del sociale m’inducono però, inevitabilmente, ad approfondire questi temi con uno sguardo di genere e attento alla coerenza dei concetti che si mettono in circolo a partire da alcune delle riflessioni lette: «La boxe professionistica è l’unico grande sport americano le cui energie primordiali, e a volte omicide, non sono deviate con falso pudore da oggetti come palle e dischetti di gomma […] Sopravvive come la più primitiva e terrificante delle competizioni: due uomini, pressoché nudi, si battono su uno spazio rialzato e illuminato a giorno, delimitato da corde come un recinto per animali […] salgono sul ring da cui, simbolicamente, ne scenderà uno solo […] La boxe è l’imitazione […] di una lotta per la vita o per la morte […] perché a volte i pugili muoiono sul ring o per le conseguenze di un combattimento, le loro vite […] accorciate dallo stress e dai colpi ricevuti […] la vita sul ring è ingrata, brutale e corta» [Joyce Carol Oates, Sulla boxe, cit. in Gianni Riotta, Muhammad Ali, un eroe imperfetto che ha portato l’America oltre i suoi limiti. Dalla conversione all’Islam al no al Vietnam. Ha battuto il razzismo, in www.lastampa.it, 5 giugno 2016].
Il volume del filosofo francese Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, edizioni Plus, 2004 (prefazione di Roberto Mancini e traduzione di Enrico Peyretti), contiene alcuni pensieri che ho scelto per concludere questa breve analisi sul pugilato.
«Le tradizioni di cui noi siamo eredi, mentre hanno dato un grande e bello spazio alla violenza, non hanno praticamente accordato alcuno spazio alla nonviolenza, fino al punto di ignorarne il nome. Tuttavia, in ciascuna delle nostre tradizioni ci sono dei punti di appoggio sui quali noi possiamo fondare una saggezza della nonviolenza […]. In ciascuna delle nostre culture, in un momento o in un altro, si sono trovate delle donne e degli uomini che hanno avuto la forza di entrare in dissenso dai loro contemporanei per affermare il primato di questi valori sopra le pretese della violenza».
Le parole di Jean-Marie Muller spostano il pensiero verso un altro possibile approccio alle questioni del vivere, senza per questo vanificare l’intensità di significati che rende il pugilato non solo uno sport ma una rappresentazione originaria dell’esistenza. Perché quindi non chiamare compromesso un compromesso e, qualunque sia il riferimento culturale in rapporto al quale ci situiamo, ritrovare il senso della contraddizione che racchiude.

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