«Non si piange sulla propria storia, si cambia rotta»

(Baruch Spinoza)

«[Mattei] era reduce dall’America, dove aveva visitato una fabbrica che trasformava il metano in gomma sintetica e voleva impiantarne una anche lui. Ravenna gli sembrava la collocazione ideale per la sua vicinanza alle fonti di materia prima, per la disponibilità delle sue aree pianeggianti, e per il porto. Espose al sindaco il suo piano, e gli chiese se il comune era in grado di fornirgli due metri cubi di acqua al secondo. Dovette restare alquanto sorpreso, e forse parecchio irritato quando il sindaco, rimasto assolutamente freddo di fronte a quel vasto programma d’industrializzazione, gli rispose pari pari di no. Stava per risalire in macchina e ripartire alla volta di una città meno inospotale, quando trafelati lo raggiunsero l’onorevole Zaccagnini e il presidente della Camera di commercio, Cavalcoli, che avevano saputo della sua richiesta. Essi gli garantirono che all’acqua avrebbero pensato loro».
Indro Montanelli, I marziani a Ravenna, in “Il Corriere della Sera”, 25 marzo 1964

 

Prima della seconda guerra mondiale in Italia era attiva una sola grossa industria chimica nazionale, la Montecatini, azienda che era stata costituita nel 1888 a Montecatini Val di Cecina, in provincia di Pistoia, per lo sfruttamento delle locali miniere di rame; nel 1910 entrò nel settore chimico e nei decenni successivi diventò la maggior azienda chimica italiana, pressoché monopolista in alcune produzioni come l’acido solforico, i concimi, i coloranti; nel 1936, in collaborazione con l’AGIP, costituì l’ANIC (Azienda Nazionale Idrogenazione Carburanti), con lo scopo di produrre benzina sintetica. Tra il 1949 e il 1951 l’AGIP si era accordata con Federconsorzi per la costruzione di un nuovo stabilimento ANIC a Ravenna, specializzato nella produzione di fertilizzanti. Nel 1953, quando venne creato l’ENI, gli vennero conferite le azioni ANIC di proprietà AGIP; successivamente l’ENI riuscì ad ottenere anche la parte posseduta dalla Montecatini. Il nuovo polo chimico determinò cambiamenti paesaggistici e ambientali che vennero in qualche modo accettati in cambio delle promesse di lavoro, progresso e benessere. Il film Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni (1964) e i documentari Il Gigante di Ravenna di Fernando Cerchio (1960) e La fabbrica immaginata, regia di Giorgio Stamboulis e Fabrizio Varesco (2014), raccontano, utilizzando differenti dialettiche, delle aspettative di quegli anni che videro la costruzione di uno dei più grandi impianti chimici d’Europa che per l’appunto Enrico Mattei, primo presidente dell’ENI, ideò, affidandolo alla direzione degli ingegneri Angelo Fornara e Gino Pagano. Il complesso petrolchimico utilizzava il gas metano, rinvenuto dall’AGIP nella Pianura Padana e al largo di Ravenna, gas che per la prima volta fu impiegato come materia prima per la fabbricazione di prodotti chimici.
Grazie a un suggerimento dell’amico Claudio Mattarozzi, presidente di Legambiente Ravenna Circolo Matelda, questa volta sono a casa di Wilma Azzella e Mario Donà: hanno superato gli ottant’anni e mi accingo ad ascoltare la loro storia. Appena mi aprono la porta della loro casa e mi accolgono con affetto ed entusiasmo, mi rendo conto immediatamente che per loro l’età è solo un dato anagrafico e mi lascio avvolgere dal loro ardore.
Abitano in un edificio dell’ex villaggio ANIC, oggi diventato quartiere San Giuseppe Operaio. Quando Enrico Mattei creò a Ravenna il petrolchimico ANIC, il suo insediamento e avviamento negli anni Cinquanta determinarono l’arrivo di centinaia di lavoratori dalle vicine regioni, in particolare dal Veneto e dalle Marche. Tra questi Mario, che da Mestre si trasferì a Ravenna con la moglie Wilma.

Vista dell’ex stabilimento ANIC, ora Versalis, dal terrazzo a nord dell’appartamento di Mario e Wilma Donà

La casa di Wilma e Mario si trova all’ultimo piano di un edificio ben costruito, con attigue strutture sportive e un ampio parco. Il quartiere, inaugurato nel 1956, se un tempo era isolato nella campagna contigua a Ravenna, oggi è inglobato nell’urbanizzazione periferica della città. Dal bel terrazzo della casa di Wilma e Mario si possono vedere, quasi a trecentosessanta gradi, a nord, le strutture delle nuove espansioni residenziali e le aree naturalistiche protette, a est, le aree produttive con le ciminiere e le torri di raffreddamento e le nuove funzioni legate alla presenza della Romea, a sud, il profilo del centro storico. Negli anni Sessanta il Villaggio ANIC si estendeva per una superficie di circa dieci ettari e comprendeva 465 appartamenti, una scuola materna, una scuola elementare, un negozio di generi alimentari e un bar. Il quartiere era abitato da circa duemila persone, per lo più giovanissime. Quest’ultima ragione spinge alla progettazione di attrezzatture per lo sport e il tempo libero (cfr. Paesaggio urbano, Dossier di cultura e progetto della città, Il recupero del villaggio ANIC a Ravenna. La riconfigurazione del Villaggio ANIC – La riconfigurazione del quartiere ANIC a Ravenna: un’occasione progettuale. Quali metodologie d’intervento per la periferia contemporanea?). Quando Wilma e Mario si sono conosciuti lei aveva ventun anni, lui diciotto. Il padre di Wilma, antifascista e d’idee socialiste, era tecnico dell’Italgas, azienda nata nel settembre 1837 come Compagnia di Illuminazione a Gaz per la Città di Torino, prima impresa italiana, e tra le prime in Europa, per la produzione e la distribuzione del gas illuminante, destinato a soppiantare le vecchie lampade a olio. La sua espansione nel resto del Regno d’Italia inizia venticinque anni dopo con la nuova denominazione di Società Italiana per il Gas.
Negli anni successivi, con l’avvento dell’energia elettrica, l’azienda cambia la propria offerta e avvia la distribuzione di gas manifatturato per la cottura dei cibi e per il riscaldamento. Nel 1967 Italgas entra a far parte dell’ENI. Con la progressiva affermazione del gas naturale, e con lo sviluppo della rete dei gasdotti di trasporto realizzata a partire dagli anni Settanta, la Società si concentra sulla costruzione delle reti per la distribuzione cittadina e sulla vendita del gas per usi civili. Nel 2000, in ottemperanza alle nuove disposizioni di legge riguardanti la separazione dell’attività di distribuzione del gas da quella della vendita, quest’ultima viene scorporata, confluendo nella Divisione Gas and Power di Eni. Dal 1° luglio 2009 Italgas, insieme a Stogit e Gnl Italia, fa parte di Snam Rete Gas. (cfr. http://www.italgas.it/it/chi-siamo/storia/storia/).
Ma torniamo agli anni Cinquanta, a quando il padre di Wilma veniva inviato dall’Italgas nelle località in cui si dovevano ampliare le reti del gas e nelle quali, di volta in volta, tutta la famiglia si trasferiva. «Questo nomadismo – racconta Wilma – ha influito favorevolmente sulla mia capacità di giovane donna di adattarmi alle situazioni e a qualsiasi ambiente rendendo elastici e fluidi i miei pensieri. Giudico una grande opportunità essere cresciuta in luoghi in cui ho avuto l’opportunità di venire a contatto con persone che avevano modi di vivere e tradizioni diverse tra loro. Le differenze sono una ricchezza ed io sono cresciuta respirando il piacere delle diversità culturali. Quando poi mio padre si ammalò, l’azienda, per favorirlo, lo mandò a svolgere un lavoro più sedentario a Fano. Da qui si trasferì a Venezia, dove incontrai Mario».

Mario e Wilma Donà nel salotto di casa

Mario, a questo punto, interviene per integrare il racconto con le sue parole: «Quando conobbi Wilma, rimasi subito affascinato dal suo modo di parlare. Il suo sguardo sul mondo mi ha cambiato». Lo fa con dolcezza e mi racconta di quanto sia stato importante per lui l’incontro con questa donna che tra l’altro ha cambiato il suo modo di esprimersi nei confronti degli altri, rendendolo più sicuro. È stato grazie a lei, mi confida, che ha sentito sempre più il bisogno di approfondire le sue conoscenze e non fermarsi alla superficie dei fatti. Poi Mario mi parla di suo padre capitano della Marina Militare e di come questo abbia influenzato la sua scelta di frequentare l’Istituto Nautico di Venezia che occupava l’ex convento delle Suore Salesiane, ubicato a San Giuseppe di Castello. Dopo aver conseguito il Diploma di “Aspirante alla Direzione di Macchine di Navi mercantili”, alterna periodi di navigazione a lavori nella cantieristica navale e nei locali macchine delle navi facenti scalo a Venezia, un’esperienza che gli tornerà utile anche quando, dopo aver sposato Wilma, decide di trovare una sistemazione a terra. «In quel periodo abitavamo a Mestre e l’Eni cercava diplomati nautici macchinisti navali. Andai a fare un colloquio a Milano e mi proposero un posto come operaio specializzato per la centrale termoelettrica in costruzione a Ravenna».
Nel documentario Il Gigante di Ravenna si racconta, con tutta l’enfasi retorica degli ex cinegiornali Luce, la nascita “titanica” del petrolchimico: «La costruzione di tutto il Complesso ANIC fu realizzata nel giro di due soli anni […]. Si iniziò tracciando le strade interne, un raccordo ferroviario ed una strada di collegamento per il trasporto dei materiali necessari per la costruzione dello stabilimento. Cominciavano a sorgere i primi edifici, i magazzini, un agglomerato di abitazioni, dove fu approntato l’“Ufficio Personale” e soprattutto enormi ponteggi per la costruzione delle allora altissime torri di raffreddamento e le grandi strutture metalliche per il Solfato Ammonico, per le Gomme, per la Centrale elettrica, per le “Sfere” del Parco serbatoi, per il Frazionamento aria, per il Trattamento Acque e le Officine… Ogni giorno arrivavano lunghe file di camion stracarichi di tutto: tubazioni, apparecchiature, macchine, motori, una marea di pali di rinforzo del terreno, poiché la fabbrica sorgeva sul terreno acquitrinoso del delta padano, strutture metalliche, di tutto e di più ed individuare dove ognuna cosa dovesse andare era problematico ed a volte impossibile. L’obiettivo era di iniziare le produzioni base entro la fine dell’anno. Per quella data dovevano essere pronti tutti i servizi, aria, metano, vapore e tanti altri, compresi ovviamente gli impianti della gomma e dei concimi, ciascuno con i propri impianti accessori, come l’Acetilene, lo Stirolo, il Butadiene, l’Acetaldeide, il Parco Serbatoi, il Texaco, la Carbonatazione, l’Acido Nitrico, la prima parte dei Magazzini e la Sintesi Ammoniaca con i grandi compressori Pignone e gli enormi motori rifasatori. Il Pipe Rack, l’intralicciatura che correva a lato delle “Isole” per il collegamento delle tubazioni fra un impianto e l’altro fu il banco di prova per il riconoscimento degli elementi che componevano le linee per i fluidi più svariati e le montagne di flange, curve, valvole, ma anche pompe e motori, ecc., erano ciascuna da riconoscere, da trovare, da stralciare dagli ordini, da verificare ed approntare per la loro definitiva destinazione, nelle 28 Isole» (cfr. http://www.pionierieni.it).

Mario accetta il nuovo lavoro e si trasferisce a Ravenna con Wilma. Durante il periodo in cui la centrale termoelettrica è in costruzione, svolge diverse funzioni, specializzandosi in particolare nella manutenzione dei tubi; nel contempo comincia a conoscere in modo approfondito il funzionamento delle strutture all’interno delle quali lavora. «Ben presto fui promosso capo turno e feci esperienza di formazione agli operai, tra questi molti ex minatori che venivano dalle Marche. Per quanto riguarda il servizio di collegamento tra le varie attività produttive divenne sempre più importante il trattamento dell’acqua. Lo stabilimento dell’ANIC possedeva quattro pozzi con pompe sommerse che prelevavano acqua a 250 metri di profondità. L’acqua che arrivava in superficie era color ruggine perché era ricca di tannino e ferro ed era necessario deferrizzarla; e, infatti, negli anni Sessanta, vennero avviate le prime esperienze di potabilizzazione dell’acqua. Solo molti anni dopo, quando si acuì il problema della subsidenza, non furono più rilasciati permessi per i pozzi artesiani. Dopo essere stato promosso capo reparto e addetto alla sicurezza, ho ritenuto importante aggiornarmi e approfondire ulteriormente le mie conoscenze; nel tempo libero studiavo e visionavo tutte le monografie degli impianti dei reparti dell’azienda per capirne il funzionamento. Mi venne offerta la possibilità di andare a Castelgandolfo con i quadri di tutte le aziende del gruppo Eni per programmare il risanamento dei reparti delle aziende. Fu un’esperienza importante, perché si faceva ricerca. Grazie alla mia precedente esperienza come manovale, che mi aveva dato la possibilità di toccare con mano e conoscere le macchine dentro e fuori, diventai io stesso formatore. Inoltre, la mia buona conoscenza della lingua inglese e francese mi permise di formare anche molti tecnici stranieri. Spesso era necessario fare la bonifica antibatterica degli impianti e si usava il cromo. Anni dopo, venne riconosciuto che era nocivo. Era molto importante anche seguire con attenzione il trattamento delle acque e la distribuzione dei fluidi; del vapore di scarico delle turbine, una parte andava a condensazione e veniva rimessa in circolo, un’altra parte andava in distribuzione».
Solo nel maggio del 1976 con la legge 319, la cosiddetta legge Merli, che raccoglie una serie di norme per la tutela dell’inquinamento delle acque, si concretizza l’interesse da parte degli organi legislativi per la tutela della qualità delle acque superficiali. Questa legge si basa principalmente sulla regolamentazione delle concentrazioni di sostanze chimiche presenti negli scarichi industriali e civili.
«L’esperienza e la conoscenza mi permettevano di avere sempre un occhio vigile sulla sicurezza degli impianti. Era, ad esempio, importantissimo controllare che le saldature fossero fatte bene e non si sviluppassero incendi.

Però, in quegli anni, tutti siamo stati a contatto con l’amianto, sostanza di cui non si conosceva la pericolosità.

L’amianto veniva impiegato a bordo delle navi e all’interno dello stabilimento; lo si credeva una sostanza inerte per isolamenti termici. Per proteggere tubazioni e fognature sottostanti alla caduta di scorie incandescenti durante i lavori di saldatura, venivano utilizzate grandi coperte di amianto filato e trasformato in tessuto. Ogni tanto incontro qualche operaio che mi dice “ho avuto l’amianto” che nel nostro gergo vuol dire: potrò – ahimé – usufruire dello sconto per andare in pensione a cinquant’anni. Io credo che, invece di “dare lo sconto”, i sindacati avrebbero dovuto sostenere tutte le persone che si ammalavano e tutelare la loro salute. Erano anni in cui i sindacati chiedevano che venisse pagata la nocività, ma la nocività non si paga, si deve eliminare».
Fino agli anni Ottanta nessuno aveva paura dell’amianto. Era conosciuto chimicamente come un inerte e questo era il requisito che ne ha favorito la diffusione in quegli anni. Fino a quando ci si è resi conto della pericolosità della sua struttura cristallina: le fibre di amianto, sottoposte ad azione meccanica, si suddividono in fibre della stessa lunghezza di quella d’origine, un po’ come quando dividiamo un filo d’erba in fettucce sempre più sottili. Questo meccanismo genera fibre estremamente sottili che, una volta immesse negli alveoli polmonari, restano intrappolate e non vengono espulse, anzi alcune hanno uno spessore talmente ridotto da oltrepassare i polmoni e insinuarsi tra una cellula e l’altra dei tessuti che costituiscono il diaframma, invadendo gli organi sottostanti i polmoni: fegato, milza, intestino.

L’angolo studio di Mario e Wilma Donà

Nella luminosa sala-studio ricca di libri di Wilma e Mario il tempo è trascorso veloce. Prima di salutarci, Wilma si ritira in cucina e torna con un bel carrello, design anni Settanta-Ottanta, su cui ha appoggiato bicchieri con l’aperitivo, olive e altro. Quando mi chiede di bere un calice di spritz rimango affascinata dal suo modo giovane, fresco e ricco di entusiasmo di comunicare. Conoscere Wilma e Mario è stato un’intensa pennellata del pensiero.

 

 

 

Postilla informativa

Nel resoconto del 12 maggio 2015 della Commissione parlamentare d’inchiesta che si occupa d’illeciti ambientali relativi al ciclo dei rifiuti, ma anche dei reati contro la pubblica amministrazione e di quelli associativi connessi al ciclo dei rifiuti in Emilia Romagna, si legge che il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Ravenna, Alessandro Mancini, durante la sua audizione, segnala quanto segue: «Il primo procedimento ormai approdato alla fase processuale riguarda il cosiddetto processo dell’amianto. Si tratta di tutta una serie di decessi, per i quali viene contestato il delitto di omicidio colposo, che hanno interessato operai, dipendenti, lavoratori in servizio presso il polo petrolchimico a seguito di esposizione ad amianto. Questo processo è attualmente in fase dibattimentale processuale. […] Il tema è importante perché mi consente di affrontare il secondo procedimento in corso di indagine, che nasce da un’emergenza nel corso del processo dell’amianto, allorquando alcuni testimoni, già anch’essi lavoratori dipendenti presso il polo petrolchimico, hanno dichiarato nel tempo, negli anni, di essere stati impiegati allo smaltimento di rifiuti, soprattutto di inerti da demolizione e, quindi, di macerie. In queste macerie erano compresi anche materiali in amianto che erano stati sotterrati, a detta di questi testimoni, nell’area cosiddetta della Piallassa Piomboni, una zona che scorre tra Ravenna e Porto Corsini, in cui ha sede il petrolchimico. Naturalmente, queste dichiarazioni riguardano fatti temporalmente contestualizzati in un periodo fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta e, quindi, piuttosto risalenti. […] È stato svolto presso la sede indicata da questi testimoni come luogo in cui erano stati smaltiti i rifiuti un sopralluogo a cui hanno partecipato, oltre che il sottoscritto, anche due sostituti procuratori. […] A seguito di questo sopralluogo e delle deleghe di indagine impartite all’ARPA sono state messe a fuoco tutte le problematiche attinenti questo sotterramento e smaltimento di rifiuti. […] L’ultimo punto che io ho ritenuto di doverle segnalare riguarda un’indagine di recentissima apertura. In particolare, riguarda un’ipotesi di reato relativo alla realizzazione di una discarica, ritenuta abusiva, di rifiuti speciali costituiti da fanghi di dragaggio del canale Candiano, il canale che porta alla città di Ravenna. Tali fanghi erano stati stoccati in alcune cosiddette casse di colmata e per essi era stata prevista un’autorizzazione allo smaltimento con un termine che è stato abbondantemente superato da anni, nonostante i fanghi insistano ancora su queste casse di colmata. Le casse di colmata, come sappiamo, sono aree predisposte per ospitare questi rifiuti, questi fanghi. Sono in numero di otto e vi sono attualmente stoccati 3.300.000 metri cubi di fanghi. L’ente conferente, che, a nostro avviso, è il produttore di questi rifiuti e i cui vertici, pertanto, sono indagati, è stato individuato nell’Autorità portuale. L’Autorità portuale ha conferito questi fanghi a varie ditte, tra le quali la Sapir, una società pubblica e privata, e la CMC (Cooperativa muratori e cementisti) di Ravenna, attraverso una serie di convenzioni sottoscritte dalle parti per lo smaltimento di questi rifiuti. Tali rifiuti non sono stati smaltiti. Pertanto, essendo stato superato il periodo previsto dall’autorizzazione, su segnalazione dell’ARPA, è stato iscritto questo procedimento penale, a carico attualmente di 9 persone, che sono appunto i vertici di queste società più o meno coinvolte. Una di queste casse di colmata, la più grande, denominata Trattaroli 1, è stata sottoposta a sequestro probatorio perché, nel frattempo, avevamo notizia dall’ARPA e dal Corpo forestale dello Stato che erano in atto attività al suo interno per le quali non risultavano autorizzazioni di alcun tipo. Anche in questo caso io ho con me copia della notizia di reato dell’ARPA e del decreto di sequestro probatorio, che è molto circostanziato al riguardo e che io ritengo possa essere utile per i lavori di questa Commissione».
In merito alle bonifiche dei siti inquinati in Italia, riporto di seguito alcuni dati dalla premessa del Dossier di Legambiente pubblicato il 28 gennaio 2014 (Risanare l’ambiente, tutelare la salute, riconvertire l’industria alla green economy): «Centomila ettari di territorio avvelenato da rifiuti industriali di ogni tipo. Cinquantasette siti di interesse nazionale da bonificare individuati negli ultimi 15 anni, poi ridotti a trentanove. Caratterizzazioni e analisi effettuate in modo a volte esagerato e inefficace, progetti di risanamento che tardano ad arrivare e bonifiche completate praticamente assenti, a parte qualche piccolissima eccezione. […] sono sempre più numerose le inchieste della magistratura sulle false bonifiche e sui traffici illegali dei rifiuti derivanti dalle attività di risanamento che troppo spesso vengono spostati da una parte all’altra del Paese. Ed è sempre più concreto il rischio di infiltrazione delle ecomafie nel business del risanamento ambientale».

Tutte le foto sono di Alberto Giorgio Cassani

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