Principi democratici tra parentesi?

A proposito del recente disegno di legge di riforma costituzionale

Vignetta di Altan

L’11 gennaio scorso, l’aula della Camera ha approvato il disegno di legge costituzionale n. 1429, presentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri Renzi e dalla Ministra per le Riforme Costituzionali e i Rapporti con il Parlamento Boschi. Il testo sarà sottoposto al Senato e, ad aprile, tornerà a Montecitorio, dove sarà votato, senza possibilità di modifiche, nel suo complesso. A ottobre la riforma costituzionale verrà sottoposta a referendum confermativo. La riforma costituzionale s’incentra su due temi principali: la riforma del bicameralismo cosiddetto perfetto e la revisione dei rapporti tra Stato e autonomie regionali, cui se ne sono aggiunti altri: l’abolizione del Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), l’eliminazione delle Province, il rafforzamento dei poteri del Governo in Parlamento ed altri ancora. Per quanto riguarda la parte relativa alla riforma del Titolo V, l’obiettivo dichiarato era di diminuire il contenzioso tra Stato e Regioni: per realizzarlo, si è scelta la strada di tagliare drasticamente i poteri delle Regioni. Infatti, non soltanto molte materie che oggi sono di competenza legislativa regionale saranno centralizzate, ma – in più – il Governo potrà intervenire anche sulle materie regionali «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale» (modifica al IV comma dell’articolo 117 della Costituzione): in sostanza, ogni volta che lo vorrà.
Contro questa riforma costituzionale, il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale ha costituito a livello nazionale il Comitato per il NO che, a partire dal prossimo aprile, porterà al Referendum di ottobre. Il Comitato in Difesa della Costituzione di Bagnacavallo, il Comitato di Faenza per la Valorizzazione e la Difesa della Costituzione, il Comitato in Difesa della Costituzione di Ravenna, il circolo di Ravenna di Libertà e Giustizia, il Gruppo dello Zuccherificio e Fiom provinciale, oltre a molte cittadine e cittadini che, fin dall’inizio, hanno scelto di farne parte, si sono fatti insieme promotori a Ravenna del Comitato per il No, presentato ufficialmente alla cittadinanza il 1° febbraio scorso.
Il Comitato in Difesa della Costituzione di Ravenna ha mosso i primi passi nell’autunno del 2004, per iniziativa di donne e uomini di numerose associazioni ravennati, fra cui Paola Patuelli. Per un approfondimento su questo tema, che implica la concezione pluralistica e partecipativa della democrazia e che quindi ci coinvolge tutti, incontro e pongo alcune domande proprio a Paola, docente di filosofia e storia, già consigliera comunale, assessora alla Cultura del Comune di Ravenna e presidente dell’Università per la Formazione Permanente degli Adulti “Giovanna Bosi Maramotti” di Ravenna.

Paola, quando hai cominciato a riflettere in maniera sistematica sull’importanza della Costituzione come fondamento della Repubblica Italiana e sulla necessità di promuovere una conoscenza approfondita di questo documento politico elaborato dall’Assemblea Costituente fra il 1946 e il 1947, ed entrato in vigore il 1° gennaio 1948?
«Potrei dire, con un veloce riferimento biografico, che la Costituzione ha fatto parte della mia famiglia d’origine fin dall’inizio. I miei genitori, sia la madre che il padre, sono stati partigiani resistenti. Per loro Resistenza ha significato impegno – costi quel che costi – per un’Italia antifascista e democratica, dopo il ventennio della dittatura fascista, della guerra e della tragica occupazione tedesca. Mentre “resistevano”, con tante e tanti loro compagni, immaginavano un’Italia repubblicana e finalmente giusta. Per loro giustizia significava uguaglianza civile e azioni attive per diminuire le distanze e disuguaglianze sociali, e, per dare corpo a queste attese, “sognavano” una Costituzione che sostenesse la libera partecipazione ai destini della cosa pubblica, alla res publica, la libera partecipazione che il fascismo aveva negato e oppresso. Nei lavori dell’Assemblea Costituente videro uno sforzo immane e ammirevole per i risultati raggiunti. Una vera “rivoluzione” fu scritta nella Costituzione: al centro la persona con i suoi universali diritti, l’uguaglianza di fronte alla legge di ogni persona, a prescindere dalle varie differenze, personali – donne e uomini –, sociali – ricchi e poveri –, religiose, etniche. L’uguaglianza nelle differenze da riconoscere, non da negare. La Costituzione fu “una rivoluzione promessa”, disse Piero Calamandrei. Quella che molte donne e uomini del Risorgimento avevano in buona misura negli stessi termini “sognato” e non raggiunto. Ben altro conteneva, infatti, il monarchico Statuto Albertino. Ben presto le donne e gli uomini che avevano “resistito” si accorsero che le promesse contenute nella Costituzione procedevano con grandi difficoltà, o non procedevano. Ma, almeno, alla Costituzione potevano appellarsi, perché c’era ed era in vigore. “Perché non applicate la Costituzione?”, questo chiedevano in continuazione ai governanti i “resistenti” come i miei genitori. E noi, loro figli, continuiamo a chiederlo. Ma per esigere la sua applicazione, la Costituzione va conosciuta. In Italia – invece – è stata per decenni poco conosciuta, anzi, misconosciuta ai più. Anni fa il Presidente Emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro a studenti ravennati che, nell’ambito di un progetto del Comitato in Difesa della Costituzione di Ravenna, lo raggiunsero – a Roma – comunicò un dato che considero di gravità inaudita, che non sarebbe – credo – udibile in Francia, in Inghilterra, in Germania, né, tantomeno, negli Usa, dove al centro della coscienza civile statunitense c’è l’orgoglio per la loro Costituzione, che è la stessa dal 1787: nel corso di più di due secoli non è stata cambiata di una virgola, è stata arricchita, invece, di nuovi diritti. Scalfaro disse ai giovani del dovere di conoscerla, la Costituzione, per poterla applicare e, se del caso, aggiornare, mentre nel Parlamento italiano sedevano – e siedono – parlamentari, non pochi, che non la conoscono. O la disprezzano. Un presidente del consiglio in anni recenti disse: «Governare con questa Costituzione è un inferno». Perché? Perché il governo ha funzioni esecutive ed ha limiti dovuti alla centralità del Parlamento, dove siedono i rappresentanti del popolo sovrano. Da quando, in particolare dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, è emerso in modo sempre più evidente il fastidio di molti governanti per questa Costituzione, e la trascuratezza, o il disprezzo, con cui non pochi parlamentari, di forze politiche anche fra loro diverse, si rapportano alla Costituzione, non sopportandola, molti cittadini hanno ripreso in mano la Costituzione, per farla conoscere, nelle scuole e presso l’opinione pubblica, e per potere meglio difenderla».

Il presidente emerito della Corte costituzionale e presidente onorario di Libertà e Giustizia Gustavo Zagrebelsky ha lanciato diversi appelli riguardo agli slittamenti costituzionali progressivi avviati nel nostro paese di cui non si è avvertito il significato d’insieme, giudicando l’ultima riforma in campo orientata all’umiliazione del Parlamento nella sua prima funzione, la funzione rappresentativa. Come cambierà la composizione del Senato con la riforma? Come cambieranno le funzioni del Senato?
«Zagrebelsky coglie molto bene il segno della “filosofia” della riforma in corso di approvazione. Di nuovo, c’è insofferenza per la centralità della funzione del Parlamento. La nostra è una Repubblica parlamentare. La rappresentanza del popolo è centrale, proprio per l’origine antifascista della nostra Costituzione. Di governi “onnipotenti” che considerano il Parlamento semplice cassa di risonanza di proprie decisioni, l’Italia non ha bisogno, nel senso che la nostra storia è già intessuta, per ragioni che hanno origini lontane nel tempo, di debole unità nazionale, di sfiducia nelle pubbliche istituzioni, di lontananza dalla politica, vista con indifferenziato sospetto. Sfiducia e disinganno sono in crescita, nel nostro paese, che – invece – dopo la Liberazione aveva ripreso fiducia nelle Istituzioni. La Resistenza era stata salutare e il popolo sovrano andava a votare in massa, nei primi decenni della storia repubblicana. Ora la partecipazione al voto è ai minimi termini. Non se ne vede il senso e l’efficacia. Il nuovo Senato sarebbe composto da 100 senatori “nominati” dalle Regioni, con funzioni fra loro contraddittorie. Pochi poteri in alcuni ambiti, troppi – se si pensa che sono senatori “nominati” – per altri, come l’elezione del presidente della Repubblica e dei giudici della Corte Costituzionale, e il voto per le riforme costituzionali. Un Senato ibrido nelle mani dei governi di turno. Strumento docile e non rappresentativo. Se si voleva veramente rendere agile il lavoro del Parlamento aumentandone efficacia e forza rappresentativa, c’era un modo – presentato da tempo con più di una proposta di legge costituzionale – che condivido. Abbandonare del tutto il bicameralismo, mantenere una sola Camera che sia pienamente rappresentativa e autorevole. E questo sarebbe possibile in modo chiaro, lineare e con una legge elettorale rispettosa della Costituzione, come ha richiesto la Corte Costituzionale con la sentenza n. 1 del 2014. Perché non si è scelta questa strada? Perché avrebbe dato più forza al Parlamento e ai rappresentanti del popolo sovrano»?

Gli altri cambiamenti previsti dalla riforma costituzionale?
«Vengono aumentati i poteri del Governo, che impone al Parlamento agenda dei lavori e tempi entro i quali debbono essere conclusi. I compiti a casa vanno fatti come dice il capo di turno e nei tempi che il capo impone. Inoltre, tutto questo va “combinato” con la nuova legge elettorale detta Italicum, che non rispetta la sentenza della Corte che citavo prima. È previsto un premio di maggioranza abnorme che potrebbe dare – con un secondo turno che non prevede coalizioni – un’ampia maggioranza a chi, nel paese, è minoranza. Se “madri e padri costituenti” ci sentono, inorridiscono».

Pensi che sarà importante mobilitarsi per un referendum popolare?
«Sarà doveroso mobilitarsi, per chi ritiene che la Costituzione possa sì essere migliorata, ma nel solco di quella del 1948. Che vuole dire rappresentanza, partecipazione, pluralismo, responsabilità civile diffusa. Dovremo mobilitarci con un primo Referendum, nell’autunno 2016, per dire No a questa riforma Costituzionale. Deve essere un No a una riforma che riteniamo sbagliata, non un plebiscito su un governo – i governi cambiano, nel tempo – o su un Presidente del consiglio. La Costituzione è fondativa di una comunità nazionale, che deve esprimere una Costituzione costruita attraverso condivisione e non attraverso minacciosi diktat di una maggioranza in un Parlamento eletto – fra l’altro – con una legge elettorale incostituzionale. Situazione di gravità – di nuovo – inaudita.
E con un secondo Referendum, probabilmente nella primavera del 2017, per cancellare la legge elettorale Italicum, di nuovo una legge che consideriamo a­n­­­ticostituzionale. Abbiamo firmato in tal senso ricorsi in 19 tribunali italiani, e depositato due quesiti referendari. Stiamo affrontando un impegno immane. È necessaria un’ampia mobilitazione. La sorte della Repubblica è di nuovo nelle mani, come nel 2006, di una cittadinanza che non intende arrendersi. Vogliamo trasmettere alle nuove generazioni una Costituzione e una Repubblica all’altezza di quella disegnata dai Costituenti dopo la liberazione».

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