Nomadismi

Come, tra coppie scoppiate e comunitarismi Millennials, sta cambiando il nostro modo di vivere e di abitare

La generazione digitale, i cosiddetti Generation Y/millennials nati e cresciuti con le nuove tecnologie, è abituata a viaggiare e andare oltre i confini della geografia. Tutto questo ha ovviamente delle valenze positive, ma anche delle valenze negative. In Italia i millennials sono la generazione alla quale i padri e i nonni hanno regalato un tasso di disoccupazione giovanile medio del 37,6% (nel 2016), con la colpevole complicità della crisi economica del 2008. Come dimostra il feroce piano di realtà, tra i giovani si è ormai allontanata l’idea del posto fisso: ci si arrangia e ci s’inventa con bilanci precari che rendono una chimera il mutuo per l’acquisto di un monolocale (sempre che i genitori non firmino o paghino per l’erede). Il lato positivo è che questa generazione si sposta, transumante per scelta e costrizione, esce da casa per l’università e magari, dopo un Erasmus, si ferma all’estero per sempre, rendendo l’orizzonte italiano fatto di anziani-baby boomer, con coté di badanti e residenze per ospiti over 80. Il che, considerando l’atteggiamento medio della politica degli ultimi tre decenni, è quello che ci meritiamo.
Questo succede non solo in Italia, ma anche a livello internazionale; nelle grandi città, i costi degli affitti sempre più alti, la diminuzione delle risorse economiche, i mutui esigenti a livello di garanzie, stanno diffondendo sempre di più il modello di co-housing e quello di Laas (acronimo di Living as a service). Il che significa che la Generation Y si domanda: perché devo acquistare qualcosa, se si può affittare o prendere in prestito? Perché devo acquistare una casa che, nella migliore delle ipotesi, graverà con un mutuo terribile sulla mia testa per i prossimi trenta anni? Negli Stati Uniti l’hanno definito Subscriction Co-Living, cioè convivenza su abbonamento. Come avviene per le serie di Netflix, per Uber, per Air b&b, per Kindle e per le App degli smartphones, dall’economia di proprietà si passa all’economia della condivisione su abbonamento. Anche chi è proprietario spesso si assesta su queste tendenze per sopravvivere; spopolano le home gallery (case private trasformate in gallerie d’arte per mostre), le location per eventi (soprattutto le grandi ville, assai dispendiose da mantenere), bed and breakfast e affini, magari con necessario calendario di manifestazioni (corsi di yoga, di astrologia, serate tematiche, corsi di cucina): lo spazio domestico diventa variabile e aperto alla condivisione di esperienze.
Insieme c’è l’altro fenomeno sociale, cioè le coppie che scoppiano, direttamente ascrivibile alla stessa fluidità nomadica post crisi subprime: il tasso di separazioni e divorzi è, infatti, aumentato vertiginosamente dal 2008. Secondo i dati dell’Istat risalenti al 2012, in Italia ogni mille matrimoni celebrati, 311 finiscono con una separazione e 174 con un divorzio. Il che si traduce quasi sempre in un impoverimento di entrambe le parti. Sino a qualche anno fa, infatti, erano soltanto le madri con figli piccoli o adolescenti il gruppo sociale a maggior rischio di povertà, adesso invece anche i padri post divorzio sono entrati in classifica (seppure con una percentuale statistica sempre minore).

Così se per i giovani l’adultità è sospesa in un perenne fieri, la condivisione dell’appartamento all’università, con professione free lance annessa, diventa lo status permanente;

“abitare” è altrettanto complicato per la pletora di neo divorziati/e alle prese con un affido congiunto: c’è chi torna a casa dai genitori ormai anziani in una casa multigenerazionale e chi costruisce una comunità affettiva (la framily, unione di friend e family), all’estero soprattutto.
Chi possiede una casa grande di proprietà spesso la deve modulare su più generazioni (nonni, figli e nipoti) e renderla fluida, perché l’incontro tra generazioni diverse può rivelarsi una perenne trincea. Sul fronte nomadismo digitale l’Italia è invece ancora orfana di soluzioni di co-housing socializzante, ma, senza oltrepassare l’oceano, l’Europa pullula invece di soluzioni per i più avanguardisti. In Spagna, ad esempio, ci sono Coworking in the sun a Tenerife, con co-living e uso degli spazi di lavoro comuni a 122 euro a settimana, “Vagare” a Madrid (e anche a Bali e a Miami per 5 dollari a settimana di abbonamento) e The Collective Old Oak a Londra. Per i più dinamici basta iscriversi a https://nomadlist. com/, dove si può scegliere la location giusta per lavorare con connessione wi-fi superveloce e godersi la vita, scegliendo tra lo scenario metropolitano e quello tropical-selvaggio.
Sempre su questo versante un giovane freelance può iscriversi a Purehouse (www.purehouse.org) per trovare una hub-home che è un po’ casa un po’ ufficio, aderendo al manifesto dell’organizzazione: «In a world where change has become a constant, it is our connection to others that fosters the internal strength to weather the winds of change» («In un mondo in cui il cambiamento è una costante, è la nostra connessione con gli altri a favorire l’energia interna per superare i venti del cambiamento»).
Ovviamente il mercato e la progettazione si stanno sempre più adeguando al cambiamento radicale di una società segnata dal nomadismo endemico e diffuso. Così Ikea per accogliere le nuove necessità transumanti (post divorzio o millenial) sta riprogettando il modo di costruire mobili, per rendere più facile l’azione di montaggio/smontaggio in caso di improvviso cambio di residenza: addio viti, bulloni, brugole e benvenuto al facile metodo a incastro che facilita tutte le operazioni. Il primo mobile è stato il tavolo LISABO, ma il sistema ben presto sarà replicato ad altre produzioni. Nel design il modulo è ormai un topos immancabile per divani, cucine, letti multifunzione.

Sopra, il tavolo LISABO di IKEA. Dettaglio del supporto ad incastro (foto IKEA)

Come il motto less is more che da Mies Van Der Rohe è diventato uno dei diktat più adeguati al vivere contemporaneo, poiché per i giovani è prioritaria l’attribuzione di valore alla qualità del­le esperienze più che al possesso di beni in sé.  Quello che si compra si deve poter trasportare o, se ingombrante, vendere, magari in un Garage Sale domestico e condiviso con gli amici. Così anche le case rappresentano una sfida per i progettisti e per i designer: devono essere flessibili e a geometria variabile, per accogliere più generazioni, diversi tipi di famiglia o comunità con interessi simili. Il che può tradursi anche in case scomponibili come i Lego e le casette di Minecraft. Sono simili, in qualche modo, al concept dei container di Pop Up Darsena a Ravenna di Officina Meme.
Un esempio di queste tipologie, dal punto di vista residenziale, sono le abitazioni modulari Kasita (https://kasita.com), progettate da Jeff Wilson, professore di scienze ambientali all’Università Huston-Tillotson di Austin, in Texas, aiutato da Remy Labesque, ex capo progettista di Frog Design.  La Kasita è low cost, modulare, di circa 33 metri quadrati, strutturata in diversi livelli per 3 metri di altezza; ha grandi vetrate e dispositivi controllabili mediante un’app per smartphone che controlla i termostati intelligenti Nest, il sistema wireless di illuminazione a led e i vetri delle finestre che si opacizzano al variare dell’intensità della luce esterna.  Può essere impilata sino a dieci moduli in altezza e combinata secondo la disponibilità di spazio. Per eventuali cambi di residenza è mobile e quindi riposizionabile nel tempo secondo le necessità: dall’Università al primo lavoro può seguire il proprietario ovunque.

Mobile è anche la casa modulare galleggiante Prenuptial Housing. Ispirata alle classiche case sull’acqua dei canali olandesi, è progettata dallo studio di Amsterdam OBA ed è divisa in due parti: in caso di divorzio dei coniugi può essere scomposta in due entità distinte e autonome e riposizionate sull’acqua, possibilmente non troppo vicine l’una all’altra.
Sempre di co-housing e coworking tratta il progetto dell’artista inglese Grayson Perry, premio Turner Prize 2003, eccentrico (per il dresscoding femminile) e vulcanico protagonista della vita culturale d’oltremanica degli ultimi venti anni, che ha progettato, in team con l’associazione Create London e lo Studio di Architettura Apparata, “House for Artists”, un complesso residenziale con alloggi e studi a basso costo, a uso esclusivo di dodici artisti (selezionati tramite bando) nel quartiere Barking, nella periferia di Londra. L’obiettivo è di ospitare gli artisti nelle diverse fasi della loro vita, dai neo-laureati a quelli più anziani con le loro famiglie, facendoli vivere insieme e promuovendo lo scambio e la trasmissione di esperienze tra generazioni differenti, sostenendo chi sceglie di vivere d’arte e cultura e fronteggiando il caro prezzi degli immobili nella capitale inglese. Il piano terra è dedicato agli studi, mentre gli appartamenti sono collocati ai piani superiori. Uno spazio comune all’aperto per mangiare e lavorare è condiviso tra gruppi di tre appartamenti, che si possono unire insieme per offrire la possibilità di accordi di convivenza e progettazione di eventi comuni.

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