Artificio e natura fra paesaggi e Land Art

Dalle pitture di marine, boschi e giardini ai titanici interventi territoriali degli statunitensi Smithson e De Maria, fino ai lavori dell’italiano Piero Guidi

La natura – intesa come vegetazione, terra, mondo di Flora – è sempre stata presente nella storia dell’espressione visiva ma con sorte alterna e pesi differenti. Inutile dire che la nascita del paesaggio come genere artistico autonomo nel corso del ‘600 segna l’inizio di questa storia, partita però sottotono visto che dipingere paesaggi era considerata una specializzazione “minore” e a costi ridotti rispetto ad esempio ai soggetti storici o di invenzione. Il mercato ha invece avuto una chiara impennata di gradimento e le case occidentali hanno iniziato proprio da questo periodo a riempirsi di paesaggi, con sottocategorie particolari come marine, “boscareccie” o vedute con monumenti antichi. Di questi dipinti ne rimangono ancora in circolazione data l’intramontabile passione per un genere che ancora oggi ha prezzi di antiquariato abbastanza alti: una marina di Philipp Hackert, il maestro di disegno di Goethe, può aggirarsi fra i 25-30.000 euro mentre per un minore di fine ‘800 si può spuntarla con prezzi 10 volte inferiori.
Partendo sempre dai secoli passati occorre ricordare anche la nascita degli orti botanici, sorti in Europa fin dalla metà del ‘400, e la diffusione degli erbari – collezioni in album di erbe e fiori – che vennero prima solo dipinti e poi dal Cinquecento raccolti grazie alla tecnica dell’essicazione, a quanto pare prima non così semplice ed efficace. Difficile vederli dal vivo ma a chi fosse interessato ricordiamo che l’erbario di Ulisse Aldrovandi è oggi tutto on line, mentre per altre raccolte esistono buone pubblicazioni.

Marie Luise Gothein (1863-1931)

Sempre in argomento, credo sia questa l’occasione di rendere omaggio a Marie Luise Gothein (1863-1931), la prima studiosa in Occidente a indagare il tema dei giardini in un’ottica storico-artistica: la sua Storia dell’arte dei giardini uscita nel 1913 in Germania e considerata ancora oggi fondamentale purtroppo è ancora conosciuta solo da una nicchia di esperti. In Italia il testo è stato tradotto infatti per la prima volta appena 10 anni fa e l’alto costo della pubblicazione lo rende ancora invisibile (nessuna traduzione su wikipedia italiano, tanto per dire): si rimanda quindi alle biblioteche del polo romagnolo che come sempre dimostrano una grande attenzione.
Saltando a decenni più vicini, l’attenzione alla natura conosce una rinnovata stagione nella seconda metà degli anni Sessanta: la Land Art è la corrente artistica statunitense che meglio ha espresso questa attenzione al territorio naturale, rovesciando i termini dell’antropocentrismo che per secoli ha colonizzato la storia dell’arte occidentale. Sarebbero numerose le opere da citare per la capacità di coinvolgere lo spettatore rimettendo al centro della progettazione la relazione fra natura e azione umana. Oltre a Walter De Maria, Robert Smithson, Richard Long, Michael Heizer e Dennis Oppenheim, molti sarebbero i nomi coinvolti, alcuni dei quali non contemplati nello storico film Land Art di Gerry Schum (1969), il gallerista che ha coniato il termine dando per primo visibilità ad un linguaggio che per le caratteristiche di estemporaneità, irraggiungibilità o durata effimera rischiava di essere escluso dalla memoria collettiva. A parte alcune opere di Richard Long create appositamente per gli spazi delle gallerie d’arte, è quasi impossibile vedere questi progetti, la cui visibilità è stata affidata fin dall’origine a fotografie, videoregistrazioni, film, a tutto ciò che poteva documentare e al tempo stesso essere destinato al mercato dell’arte.

Come immagine guida è difficile liberarsi dalla bellezza del Lightning Field di Walter De Maria, realizzato fra il 1973 e il 1979 in New Mexico: l’installazione, composta da 400 steli di acciaio piantati in un’area di un miglio per un chilometro di lato nel deserto presso Albuquerque è fra le poche ancora oggi visitabili da un numero limitato di persone – massimo sei al giorno – fra la primavera e l’autunno. Lo spettacolo di questa zona, già affascinante grazie al paesaggio, acutizza la percezione visiva e sonora degli spettatori, chiarendo l’importanza dell’esperienza musicale dell’artista partito inizialmente come musicista con i Velvet Underground. Rimane la difficoltà di assaporare l’opera nella sua solennità tramite le semplici fotografie o le rare immagini su Youtube – purtroppo guastate dalle voci dei visitatori o da soundtrack discutibili – che non possono restituire in nulla l’atmosfera reale. Per assistere al concerto naturale, occorrono dai 150 ai 250 dollari più il volo negli Usa e la fortuna di beccare un temporale (studiate i monsoni estivi) che concentra tutta la potenza di tuoni e fulmini in un perimetro di pochi chilometri. Credo sia un’esperienza indimenticabile.
Le linee di Nazca in Perù sono quanto di più vicino alle progettazioni su vasca scala della Land Art, purtroppo ben individuabili solo grazie a vedute aeree: se per le antiche popolazioni peruviane si trattava di togliere pietre dal suolo per lasciare la traccia del disegno, in molti casi gli Earth Workers hanno operato al contrario, aggiungendo materiale – pietre, terra, legno, fogliame, minerali, sabbia – per creare esempi come la grandiosa Spiral Jetty di Robert Smithson, un lungo molo di terra a forma di spirale sul Grande Lago Salato dello Utah (1970), o la serie delle Correzione di prospettiva (1969) dell’olandese Jan Dibbets, raffiguranti geometrie sul suolo che ricostruiscono una percezione virtualmente prospettica agli occhi dello spettatore.
Altri interventi di Land Art si avvicinano anche alla tecnica dei Crops Circles – i famosi “cerchi di grano”, inventati e realizzati per gioco da Doug Bower e Dave Chorley alla fine degli anni ’70 – in cui le forme vengono identificate nel togliere, tagliare, dar forma a materiali naturali: è questo il caso delle sagome del corpo dell’artista impresse nell’erba, nella neve o nella terra della serie Silueta di Ana Mendieta (1976-78) o dei grandi circoli di neve creati da Michael Heizer nel 1968 presso El Mirage Dry Lake in California, realizzate mediante tonnellate di materiale gettato da un camion che ripete un pattern ad alta velocità. E se nel lavoro di Mendieta la natura diventa lo sfondo in cui viene assorbito il corpo femminile mettendo in crisi il rapporto fra natura/cultura (sono gli anni della riflessione sul femminile), nel lavoro di Heizer si esplora – come in tante altre opere dei colleghi – gli intrecci fra Land Art, Arte Concettuale e Gestuale.

Che questa grande stagione espressiva non sia terminata ne è testimonianza l’uscita recente (luglio 2015) del film documentario Troublemakers: The Story of Land Art, scritto e diretto da James Crump e basato su una serie di interviste ai grandi interpreti storici della corrente. Anche un giro in rete permette di verificare la freschezza di interventi più recenti fra cui quelli realizzati dal duo francese Gilles Bruni e Marc Babarit, che operano da diversi anni in Europa e nel nord America creando installazioni all’aperto mediante materiali vegetali reperiti sul luogo al fine di riattivarne il significato.

Andres Amador, intervento di Land Art, San Francisco, costa settentrionale

Senza scopi altrettanto significativi, possiamo aggiungere anche i macrointerventi di Andres Amador (1971), un artista di San Francisco che esegue sulla spiaggia enormi pattern curvilinei nei momenti di bassa marea allo scopo dichiarato di ottenere una decorazione destinata presto al tramonto. Dalla postazione al computer oppure tramite vere e proprie perlustrazioni sono visitabili inoltre i percorsi di Land Art all’aperto in provincia di Trento, fra cui ricordiamo i percorsi di ArteNatura nei boschi della Val di Sella – dove dal 1986 sono disseminate installazioni create con sassi, foglie, muschi e tronchi, realizzate da artisti locali – e quelli similari del lago di Ledro, dell’Alpe Cimbra o del Bosco di Stenico. Se ci spostiamo poi nel sud dell’Italia, andrebbe visitato almeno una volta nella vita il Museo di Gibellina in provincia di Trapani, che per quanto caratterizzato dalla raccolta di sculture all’aperto, presenta anche l’installazione del grande Cretto di Burri, realizzato tra il 1984 e il 1989 dall’artista su un’area di 8.000 metri quadrati.

Alberto Burri, “Cretto”, 1984-1989, Gibellina (TP)

Lungi dall’aver esaurito l’argomento, possiamo solo citare altri grandi protagonisti come Joseph Beuys, i cui interventi – spesso eseguiti in Italia – si situano a cavallo fra Land Art, Arte Concettuale e Arte Pubblica, o gli italiani Giuseppe Penone e Piero Gilardi, entrambi accomunati dall’esperienza iniziale di Arte Povera. Nulla pone questi due artisti a maggior distanza da Jeff Koons che nel 1992 realizzava un enorme cagnolone, oggi davanti al Museo Guggenheim di Bilbao: per quanto Puppy – questo il nome del white terrier alto 13 metri – sia eseguito solo da un’armatura che sorregge fiori e piante in continuo mutamento a seconda della stagione, il fine ultimo dell’artista statunitense è simboleggiare tanto “amore, calore e felicità”, una triade di significato molto semplice rispetto agli intenti espressi dai tappeti-natura di Gilardi dove si indaga il rapporto fra natura e artificio oltre alla fragilità stessa dell’ecosistema. Proseguendo la linea di attivismo che lo aveva condotto a forme sempre più partecipative, più recentemente Gilardi ha congiunto la sua passione per l’arte, la terra e la collettività nella realizzazione a Torino del Pav-Parco d’Arte Vivente, progettato e gestito da un collettivo di persone guidate dall’artista e dall’architetto del paesaggio Gianluca Cosmacini: in questo contesto si radunano i leitmotiv della ricerca dell’artista come il rapporto fra arte e natura, l’arte relazionale e partecipativa, il bisogno di sostenere i movimenti artistici. Come a dire: – “tutto torna” – ma ciò che torna risponde talvolta al cuore e ai bisogni del contemporaneo.

 

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