Alberto Giorgio Cassani e Francesco Di Gregorio: il racconto e le opere

La fenomenologia delle archistar© e il rapporto dialettico fra struttura e territorio

Alberto Giorgio Cassani animerà con Francesco Di Gregorio il settimo incontro del ciclo “I 16 – SeDici Architettura”, in calendario giovedì 13 ottobre al teatro Bonci di Cesena. La rassegna propone incontri-confronti fra professionisti affermati della progettazione contemporanea e architetti emergenti,  è promossa dalla rivista Casa Premium della società editoriale Reclam e ideata dal comitato scientifico composto da Gianluca Bonini e Giovanni Mecozzi di Nuovostudio e da Filippo Pambianco Caveja-studio, con il patrocinio degli Ordini professionali degli architetti e ingegneri di Ravenna e Forlì anche ai fini formativi. Il fenomeno delle archistar – e, nell’ambito della professione dell’architetto, il rapporto fra arte e mestiere, estetica e pragmatismo, tecnica e creatività – sarà il tema della tavola rotonda fra i relatori della conferenza e altri esperti a cura della rivista dell’abitare “Casa Premium”, condotta dal direttore Fausto Piazza.

 

Nella società dello spettacolo
le archistar non tramontano mai

Alberto Giorgio Cassani (Bergamo, 1960), dopo essersi diplomato al Liceo-Ginnasio “Dante Alighieri” di Ravenna, si è laureato in Architettura al Politecnico di Milano nel 1986. Nel 1993 ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Conservazione dei beni architettonici. A Milano ha a lungo lavorato nella redazione della rivista “’ANAGKH”, diretta da Marco Dezzi Bardeschi e insegnato Teorie e storia del restauro, dal 1996 al 2002, come professore a contratto, al Politecnico. Dal 1995, inoltre, è divenuto docente a contratto di Elementi di architettura e urbanistica all’Accademia di Belle Arti di Ravenna, dove tuttora insegna nel Biennio specialistico di Mosaico. È docente di ruolo di Elementi di architettura e urbanistica (Triennio) e di Storia dell’architettura contemporanea (Biennio) all’Accademia di Belle Arti di Venezia. La sua attività di redattore di riviste scientifiche comprende, oltre “’ANAGKH”, “Albertiana”, organo della Société Internationale Leon Battista Alberti, e “Anfione e Zeto“. È inoltre il curatore dell’“Annuario” dell’Accademia di Belle Arti di Venezia e collabora da anni con “Casabella” e con la rivista “Casa Premium”. È stato membro del Circolo Gramsci di Ravenna e, più recentemente, della Fondazione “Ravenna Capitale” di cui è stato presidente nel triennio 2007-2010. Studioso di Leon Battista Alberti, suoi campi d’interesse sono inoltre la storia dell’architettura moderna e contemporanea, la teoria e storia del restauro, la letteratura sulle città e la fotografia d’architettura. Ha al suo attivo numerose partecipazioni a convegni nazionali e internazionali. Tra le sue principali pubblicazioni, vanno ricordate le monografie: Le Barcellone perdute di Pepe Carvalho, presentazione di Manuel Vázquez Montalbán, Milano, Unicopli, 2000, 20112; La fatica del costruire: Tempo e materia nel pensiero di Leon Battista Alberti, Milano, Unicopli, 2000, 20042 (con postfazione di Massimo Cacciari); Figure del ponte: Simbolo e architettura, Bologna, Pendragon, 2014; L’occhio alato: Migrazioni di un simbolo, con uno scritto di Massimo Cacciari, Torino, Nino Aragno, 2014; e le curatele: Tomaso Buzzi 1900-1981: Il principe degli architetti, Milano, Electa, 2008; Leon Battista Alberti, La favola di Philodoxus (Philodoxeos fabula), testo latino a fronte, prefazione di Carlo Angelino, Rapallo, il ramo, 2013; Guido Cirilli: Architetto dell’Accademia (con Guido Zucconi), Padova, Il Poligrafo, 2014.
Ad Alberto Giorgio Cassani il compito di raccontare alcuni aspetti del fenomeno planetario delle archistar.

Acclamate, viziate, ricercate chi sono le archistar e che mondo è o è stato quello che ha bisogno di queste figure?
«Forse le archistar© (con il marchio del copyright, come hanno chiesto di fare Gabriella Lo Ricco e Silvia Micheli, autrici del fondamentale Lo spettacolo dell’architettura. Profilo dell’archistar©, Bruno Mondadori, 2003), sono sempre esistite. Basti pensare a Gian Lorenzo Bernini e al trattamento da principe ricevuto a Parigi, chiamato da Luigi XIV nel maggio del 1665 per un ritratto in marmo e per il disegno della facciata est del Louvre (che invece fu realizzata su progetto di un medico, architetto per diletto, Claude Perrault; come a dire che anche le archistar© di una volta avevano i loro problemi). Venendo a secoli più vicini a noi, il fenomeno di cui parliamo ha forse avuto inizio con le grandi figure del cosiddetto “movimento moderno”: Walter Gropius, Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe, con l’aggiunta della “superstar” americana Frank Lloyd Wright. Già gli aneddoti biografici e le fotografie che li riguardano assumono i toni di una consacrazione divistica. Ma sicuramente la figura di svolta è stata quella di Philip Johnson (1906-2005). A partire da lui, incontrastato re del Postmodern, e primo vincitore, nel 1979, del premio Pritzker, l’Oscar dell’architettura, il connubio tra architettura e potere (da sempre esistito, naturalmente), è divenuto sempre più stretto, dal momento che è soprattutto l’architettura, fra tutte le altre arti, che viene assunta dall’establishment quale “biglietto da visita” all’interno di quella che Guy Debord ha chiamato giustamente La Société du Spectacle (1967). Uno spettacolo estremamente serio».

Le risorse e le committenze sono ormai concentrate in paesi cosiddetti emergenti, dalle repubbliche ex sovietiche ai piccoli e ricchissimi paesi arabi fino ai colossi asiatici, ma le archistar sono in grado di rappresentare nuove egemonie, nuove ricchezze oppure si tratta di un fenomeno in declino?
«Naturalmente gli architetti vanno dove ci sono committenze in grado di permettere ai loro “sogni” di realizzarsi (tutte le archistar© hanno un ego fortissimo e vogliono ottenere fama e gloria già in questo mondo). Ricordo qualche anno fa la “fuga” di cervelli architettonici verso i Paesi arabi, la nuova Mecca dell’architettura. Oggi lo stesso accade con la Russia e soprattutto con la Cina (finché il boom di quest’ultima durerà…). Gli architetti contemporanei, ormai, sono dei mercenari che vanno dove li porta il soldo. Ma chi, nella società globalizzata e del capitalismo incontrastato e vincente, può scagliare la prima pietra? L’unica cosa che può fermare tutto ciò – e in parte sta cominciando a farlo – sono le crisi economiche».

In un mondo senza archistar vince l’omologazione dei segni, il politicamente corretto; non c’è più spazio per l’inatteso, per lo straordinario, per le architetture che cambiano il destino di un luogo, il cosiddetto “effetto Bilbao”, o invece è finita un’epoca e si intravedono nuove forme di incontro e dialogo fra giovani energie e le committenze private e pubbliche?
«Quando sono stato a Bilbao per la prima volta, ho subìto una sorta di sindrome di Stendhal, ma del tutto esaltante: non mi ero mai trovato di fronte a un edificio simile e sono totalmente d’accordo con quanto afferma l’artista-regista Julian Schnabel nel documentario di Sidney Pollack, Sketches of Frank Gehry, del 2006, che criticare il Guggenheim per le sue “esagerazioni” formali è come ritenere “over the top” l’interpretazione di Robert Duwall nella celeberrima scena di Apocalypse Now. Dunque, senza dubbio, senza l’“effetto Bilbao” non avremmo architetture che ci stupiscono. Il problema è come queste architetture s’inseriscono nel contesto. Il “fiore” di titanio che appare tra le vie uniformi del tessuto storico di Bilbao provoca uno shock positivo e inebriante. Altre architetture da archistar© calano dall’alto come Ufo. È il caso, ad esempio, del museo MACBA di Richard Meyer a Barcellona, al centro del quartiere del Raval. Si è creata una piazza famosa in cui regnano gli skaters, ma l’enorme “balena bianca” di Meyer appare certamente “fuori luogo” e “fuori scala”. Il problema è che, dopo Bilbao, si è pensato che un’architettura firmata da uno “stilista architetto” potesse risolvere tutti i problemi di una città in crisi. Il che non sempre avviene».

Qual è la lezione e il contributo al tema che emerge dalla Biennale Architettura 2016 di Venezia?
«Si potrebbe dire senz’altro, a prima vista, che la Biennale di quest’anno sancisce la fine delle archistar©. Vi sono certamente diversi nomi di fama, e persino alcune archistar©, tra gli architetti invitati, a cominciare da Lord Norman Foster e dal senatore Renzo Piano, seguiti, in rigoroso ordine alfabetico, per non toccare la suscettibilità di nessuno, da Francisco e Manuel Aires Mateus, Tadao Ando, Shigeru Ban, João Luís Carrilho da Graça, David Chipperfield, Herzog & de Meuron, Kengo Kuma, Richard Rogers, Kazuyo Sejima & Ryue Nishizawa, Luigi Snozzi, Eduardo Souto de Moura e Peter Zumthor. Ma, nell’insieme, il tema scelto per la 15a edizione è un invito all’architettura a occuparsi di temi sociali, come evidenziano le parole chiave scelte dal curatore: vita, ineguaglianze, segregazione, insicurezza, periferie, migrazione, informalità, igiene, rifiuti, inquinamento, catastrofi naturali, sostenibilità, traffico, spreco, comunità, abitazione, mediocrità, banalità (definite d’imbarazzante prevedibilità in un articolo apparso on-line sul sito www.artribune.com/2016/06/biennale-architettura-reporting-from-the-front-alejandro-aravena-top-flop/).
Il risultato, curioso e paradossale, è stato però di far diventare un’archistar©, grazie anche al suo sex-appeal da fotomodello – dunque del tutto all’interno del paradigma delle archistar© – proprio il direttore stesso della Biennale anti-archistar©, Alejandro Aravena, consacrato definitivamente tale dal premio Pritzker 2016.

La “Società dello spettacolo” non perdona…».

 

Alla ricerca dei profondi
legami fra artificio e natura

Francesco di Gregorio (1985) è architetto con sede tra Parma e Parigi. Ha frequentato l’Accademia di Architettura di Mendrisio dove si è laureato nel 2010 e ha studiato presso il Royal Institute of Technology di Stoccolma. Partner dello studio Di Gregorio Associati (Parma), Francesco sviluppa l’attività progettuale dalla scala ebanista dell’interior design fino ad arrivare alla scala urbanistica e territoriale. Il suo lavoro si concentra sul rapporto dialettico tra struttura e territorio.
Di Gregorio ha di recente diretto progetti, oltreché in Italia, in Spagna, Svezia, Francia, Germania e Brasile, confrontando il proprio approccio progettuale con condizioni sempre diverse, talvolta legate a contesti storici, talvolta generici.
Al momento è impegnato su una serie di progetti: Bologna Fiere, Progetto per il revamping del complesso fieristico; Parma Urban District, un nuovo shopping center multifunzionale interamente prefabbricato; Castel Frentano, casa unifamiliare nella campagna abruzzese; Monticello, trasformazione di un edificio rurale in un vigneto sulle colline parmigiane. Tra i lavori più recenti vi sono: Cibus è Italia, padiglione completato in occasione di Expo 2015 a Milano e successivamente  riadattato come nuovo Ingresso Ovest delle Fiere di Parma (2016); Cot Duà, complesso residenziale a São Miguel do Gostoso in Brasile (2014); Cittadella del Rugby, la nuova tribuna principale dello Stadio di Parma (2013); Fohr, ristrutturazione di un antico fienile in un’isola del Mare del Nord in Germania (2012); Tiles and Concrete, recupero di uno storico edificio rurale a Lasagnana, nella campagna emiliana (2011). In occasione dell’incontro a Cesena Di Gregorio presenterà alcuni dei suoi progetti più significativi fra cui : Synthesiscity (Stoccolma, 2008); Piastrelle & Cemento (Tizzano Val Parma, 2011); Föhr, Germania, 2012); Cibus è Italia (Expo 2105, Milano – Fiere di Parma,  2016).

Sopra immagini di alcuni progetti dell’architetto Francesco Di Gregorio

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