Officina Meme e Michele Bondanelli

Il racconto delle idee, i progetti e le opere all’insegna della rigenerazione urbana

L’architetto Michele Bondanelli (Argenta) e Officina Meme (Ravenna) inaugurano la quinta edizione
della rassegna “SeDici Architettura 2017-2018”, giovedì 22 giugno a Palazzo Rasponi delle Teste di Ravenna.
Il nuovo ciclo di incontri – promossi dalla rivista Casa Premium, edita da Reclam, insieme a Caveja-studio e Nuovostudio – ha come sottotitolo: Incontri a più voci sul progetto. Storia, estetica, esperienze aprendosi
a tutte le sfaccettature del mondo del progetto, dalla concretezza delle realizzazioni fino ai vertici della teoria estetica. La prima tappa è dedicata al tema della rigenerazione urbana intesa nella sua sostanza di nuovo patto tra urbanistica e architettura. I due protagonisti della conferenza, ospiti dell’edizione 2017 della Biennale dello Spazio Pubblico, rappresentano altrettante realtà emergenti del territorio e impegnate in Italia e all’estero. Ripensare e ricostruire lo spazio pubblico (e privato) è il titolo della tavola rotonda che si sviluppa attorno
ad esempi di riattivazione capaci di prescindere dalla grande scala perché operano non sul rango delle città
ma sulle persone e sulle reti plurali di relazioni in cui strade, piazze, edifici dismessi e comunità,
pur uniche in ogni contesto, si muovono sempre sulle stesse invarianti.

Michele Bondanelli

Costruire sul costruito, in “silenzio” e senza dimenticare chi siamo e dove andiamo

Michele Bondanelli, Workshop Camerino

Dopo la laurea allo IUAV, l’architetto Michele Bondanelli intraprende la libera professione concentrando il proprio interesse verso il restauro e il miglioramento sismico del costruito. Tale impegno viene riconosciuto con la menzione speciale al IV Premio Internazionale DOMUS Restauro e Conservazione. Lo studio vanta prestigiose collaborazioni (Alvisi+Kirimoto, Milan Ingegneria e Studio Basin) e l’impegno diretto nel gruppo G124, voluto da Renzo Piano e nella School of Sustainability di Mario Cucinella. È tra i responsabili di Argenta 2030, Masterplan di rigenerazione urbana presentato all’ultima edizione della Biennale dello Spazio Pubblico. Abbiamo chiesto a Michele Bondanelli di raccontarci le sue ultime esperienze nel campo del progetto urbano e della tutela del costruito.

Il nome del programma “Argenta 2030” rimanda ad un orizzonte temporale lungo, confermando che l’intervento sulla città consolidata deve essere metabolizzato prima di renderne stabili i risultati. Quali sono le tappe intermedie di questo processo?
«Con il progetto Argenta2030 abbiamo voluto intraprendere un percorso che, per una cittadina di provincia e di piccole dimensioni, significa un cambiamento, più che fisico, culturale nel senso di visione della città come bene comune. Quando ho formulato la mia proposta tecnica, immaginavo di sperimentare uno strumento che potesse dialogare con la cittadinanza, che potesse introdurre sia nelle dinamiche amministrative che in quelle sociali un elemento di disturbo. Lo scorso anno abbiamo intrapreso un percorso di ascolto – non uso il termine partecipazione perché non era volutamente quello il terreno su cui volevamo iniziare il processo – con la cittadinanza attiva. Al termine abbiamo formulato una proposta che abbiamo chiamato Sherpa Urbano, una mappa su cui abbiamo graficizzato le proposte di rigenerazione e con cui abbiamo iniziato a confrontarci sia con l’amministrazione comunale che con i cittadini. I dati raccolti ci hanno permesso, sia in positivo che in negativo, di formulare un Masterplan generale di rigenerazione urbana del centro storico che ha come elemento di attuazione lo strumento del concorso di progettazione.
Con un grande sforzo, ma con determinazione, l’amministrazione comunale partirà a breve con il primo concorso di progettazione che abbiamo chiamato Stage Garibaldi e che vede interessata come area pilota la piazza principale di Argenta. Credo che sarà un momento molto stimolante non solo per chi vorrà partecipare al concorso ma anche per la cittadinanza; infatti è previsto che i 5 finalisti ammessi alla seconda fase partecipino ad un workshop tenuto ad Argenta dove potranno discutere con la cittadinanza le loro proposte e dove si potranno confrontare con gli studenti del polo scolastico presente nel centro cittadino.
Ritengo sia necessario sperimentare e creare casi laboratoriali, non solo ad Argenta. Per questo cercheremo di reperire ulteriori risorse per attivare, con la collaborazione delle scuole primarie e secondarie, alcuni “cantieri” in cui i motori e gli esecutori della rigenerazioni siano gli studenti stessi. È da loro che si deve iniziare a lavorare sulle politiche urbane e sulle tematiche dell’agenda urbana europea, sul costruire generazioni capaci di accedere e sfruttare le opportunità che la comunità europea mette a disposizione».

Documentazioni delle esperienze professionali dell’architetto Bondanelli

Il gruppo G124, voluto dal Senatore a vita Renzo Piano ha aperto le stanze della politica al tema della città di domani, partendo delle periferie e dai giovani progettisti. Come è nata la sua collaborazione con il gruppo di lavoro e quali sono stati i risultati principali sia in termini concreti che metodologici?
«Come capita spesso tutto è nato per caso. Avevo appena concluso la mia esperienza di assegnista di ricerca e stavo cercando di capire “cosa fare da grande”. Una persona anch’essa conosciuta per caso mi chiede se mi interessa partecipare a un gruppo di lavoro sulla vulnerabilità delle scuole e di mandare il curriculum a un indirizzo mail per la selezione. Senza troppa convinzione inoltro la e-mail e dopo un mese circa parlo al telefono con il RPBW (pensavo fosse uno scherzo di un amico buontempone) e il venerdì successivo mi trovo a Genova catapultato con altri cinque colleghi nell’avventura lanciata da Renzo Piano. È stata un’esperienza molto importante sia dal punto di vista professionale che umano. Il gruppo di lavoro si stava formando in quei momenti ed essere stato presente mentre si determinavano le prime scelte, il nome G124 e le “regole d’ingaggio”, è ancora oggi a tre anni di distanza molto entusiasmante. Dall’esperienza del G124 credo sia maturata la consapevolezza che la figura professionale dell’architetto stia radicalmente cambiando, forse lo è già completamente, e che si deve portare la propria competenza su un piano diverso da quello a cui abbiamo fatto riferimento fin dall’università. Il progetto di architettura non può più essere fine a se stesso, esclusivo; non sono i grandi gesti che fanno la differenza ma i piccoli interventi, i rammendi e le ricuciture. L’architettura deve rapportarsi con la polis, con chi poi vivrà e userà lo spazio o la città progettata. Forse il termine giusto è quello utilizzato da Mario Cucinella: “empatica”. L’elemento più significativo di questa esperienza è aver imparato ad ascoltare non solo i luoghi o le architettura ma anche le persone che le vivono, e trarne elemento vitale per il progetto senza mai sottrarsi al proprio compito di architetto a cui spetta una scelta, quella finale, con la consapevolezza che non accontenterà mai tutti, perché se la rigenerazione urbana è la ricerca di consenso allora non è più rammendo è l’ennesima lacerazione del tessuto».

La fragilità del nostro patrimonio storico-architettonico è un dato di fatto che tuttavia da oltre un secolo sembra emergere solo in concomitanza con eventi calamitosi. Il suo quotidiano impegno professionale è volto alla cura di questo patrimonio. Come è possibile coniugare il miglioramento sismico degli edifici e il linguaggio dell’architettura contemporanea nella prassi progettuale senza inseguire l’emergenza?
«Dobbiamo essere chiari sullo stato dell’arte dell’edificato in Italia. Il patrimonio edilizio italiano è in larga parte costruito senza nessuna concezione antisismica, di fatto solo a partire dal 2003 l’intero territorio nazionale è stato classificato come a rischio sismico e soltanto dal 2008 abbiamo una normativa che prevede concezioni e metodiche di intervento che tengano conto delle azioni sismiche. Siamo quindi una nazione culturalmente giovane sotto il profilo della consapevolezza del rischio ma abbiamo a disposizione un patrimonio di abilità tecnico scientifiche impareggiabile. L’esperienza maturata in molte aree colpite da eventi sismici mi porta a dire che la dove gli interventi di miglioramento sono stati “congegnati” con il buon senso e “validati” dal calcolo normativo di fatto hanno raggiunto l’obiettivo: salvare la vita umana. Ciò su cui dobbiamo ancora lavorare è la progettazione della prevenzione. I singoli interventi, seppur un buon inizio, rimangono elementi isolati. Si deve avere una strategia comune, si deve avere un quadro di gestione dell’edificato pubblico e privato che sappia individuare le strategie e le risorse per ridurne la vulnerabilità. Si deve partire, senza ombra di dubbio, dagli edifici pubblici con importanti segnali. Se un edificio non ha valenza storico culturale, se non presenta significati materici e sociali rilevanti, si deve aver il coraggio di demolirlo e, perché no, non ricostruirlo; si deve aver il coraggio di cambiare destinazioni d’uso ad edifici antichi che per loro natura non possono sopportarne le esigenze prestazionali, pena disattendere le prerogative della tutela e della conservazione. Per contro si deve aver la forza di salvare dall’abbandono un patrimonio edilizio storico sempre più fragile perché non abitato, non ordinariamente manutenuto e migliorato nel tempo. In quest’ottica credo che porre l’intervento contemporaneo come uno strato testimone della cultura materiale e tecnica dell’epoca che lo ha prodotto sia la via da perseguire, o meglio che tendo a perseguire. Vedo l’intervento di miglioramento come un elemento tecnologico necessario. Se concepito come forma architettonica lasciata in vista, non celata ma mostrata senza muscolarità o arrogante prevaricazione sull’antico, diviene senza dubbio una via di valorizzazione e di recupero del tessuto antico. Giovanni Carbonara ha definito un mio intervento “silenzioso”, senza dimenticare – aggiungo io – “chi siamo e dove andiamo”».

Lo spazio pubblico è forse la rappresentazione più significativa della vita di una comunità. Nella città contemporanea, tolti quegli spazi centrali che storicamente richiamano cittadini e visitatori, le aree marginali languono in uno stato di anonimato, nel migliore dei casi, tra un evento stagionale e l’altro. Come si rendono attrattivi questi spazi utilizzando lo strumento del progetto?
«Sta tutto, come dicevo prima, nel nuovo ruolo e nella dinamica della professione dell’architetto. Il progetto diviene elemento primario di un processo che deve coinvolgere non solo sfere tecniche ma anche sociologiche, economiche, politiche ecc.. Governare un processo di trasformazione che è in primis culturale per riappropriarsi di uno spazio, necessita di un coordinamento interdisciplinare molto elevato e che abbia una visione a lungo termine, il tempo giusto della rigenerazione, in alcuni, casi poche settimane, in altri, anni. Per prima cosa credo sia indispensabile trovare quella che Renzo Piano definisce la scintilla, l’elemento che tiene ancora viva l’anima e la voglia di socialità nell’area: una associazione, un gruppo di giovani che non vogliono lasciare il quartiere, un parroco di periferia, una squadra di rugby, una cooperativa sociale o giovani in cerca di un luogo identitario.
Credo poi che si debba passare per tentativi di trasformazione non fatti di carta e modulistica ma di eventi concreti, di momenti di riappropriazione dello spazio, di autocostruzione e di coinvolgimento diretto delle generazioni future per capire e comprendere la risposta del luogo e di chi lo potrà vivere, in particolare credo che l’arte e la musica possano rivestire un ruolo fondamentale in questi processi. Oggi poi non possiamo escludere all’interno dei processi di trasformazione urbana anche quello della comunicazione. Viviamo in una società dominata dalla comunicazione visuale e dalla sempre più liquida e incontrollata realtà social di internet. Strumenti, opportunità anche per chi progetta e pensa il futuro delle città.
I processi di marginalizzazione di aree urbane – dobbiamo ricordarlo – non sono sempre geograficamente collocati ai margini del perimetro urbano. Spesso abbiamo anche aree geograficamente centrali che divengono periferie. È difficile, ma nel processo/progetto va individuato un luogo iconico con una capacità di adattamento alle trasformazioni sociali molto elevato, quasi sempre questo luogo deve essere il luogo di identificazione dei giovani e deve poter fungere da elemento di collegamento generazionale. Oggi va molto di moda il cultural centre; io credo che una scuola moderna ed innovativa sia per definizione il miglior cultural centre. Infine ritengo che il progetto debba essere un oggetto “fatto a mano”, cucito su misura caso per caso, in cui il metodo scelto possa e debba poi subire modifiche e variazioni, assumere nuove forme.
Il bello del progettare è quello di mettersi in discussione ogni volta, ripartire da zero affrontare problemi simili ma sempre diversi e dare risposte sempre diverse. Altrimenti non farei l’architetto».

Officina Meme

Il fattore tempo nei processi di attivazione urbana

Alcuni progetti di Officina Meme

Lo studio di progettazione Officina Meme è stato fondato nel 2015 dagli architetti Maria Cristina Garavelli, Lara Bissi, Elisa Greco e Cristina Bellini, che hanno maturato le loro esperienze come architetti in importanti studi italiani e hanno avviato il loro processo di collaborazione già dal 2012 con l’impegno all’interno delll’Associazione Meme Exchange, da loro fondata, che ha portato avanti il ciclo di eventi denominato “Esperimento di Riuso urbano”. Officina Meme possiede solida esperienza nella progettazione architettonica e in particolare nei processi di rigenerazione urbana che affrontano le tematiche di riuso temporaneo e “attivazione” di edifici dismessi, grazie ad un proprio metodo di coinvolgimento capillare di tutti gli attori, interni ed esterni al comparto da rigenerare. Officina Meme sperimenta una modalità di attivazione urbana sostenuta da una visione a lungo termine per lo sviluppo di aree dismesse, che prevede successivi steps di intervento finalizzati alla rapida riapertura dei luoghi abbandonati e al loro divenire in breve tempo contenitori di nuovi usi.

Alcuni esempi tangibili di questo processo sono i progetti: Darsena Pop Up, Frames di Paesaggio (opere di arredo urbano in banchina), il recupero della sala del tiro olimpionico nella sede storica del Tiro a Segno, la progettazione del “Mutabox”, un box prototipo per supporto al pubblico spettacolo in aree dismesse, il progetto di riuso temporaneo per lo zuccherificio di Massa Lombarda, alcuni progetti di riconversione nel settore residenziale. Lo studio si occupa inoltre di installazioni temporanee (Settimana del Buon Vivere 2016, Esperimenti di riuso Urbano..). L’attività professionale nel corso del tempo si è arricchita di svariate collaborazioni, sia sul territorio che all’estero. Tra queste: enti di ricerca quale Certimac e Itc_Cnr all’interno di bandi europei (progetto Green Port), associazioni culturali per programmi di attivazione urbana (The Fumbally Exchange, Naviga in Darsena, collectif Cocotte Minute, Neo Visual Project), consulenze per attivatori di impresa (LugonextLab). Durante la scorsa Biennale di Architettura, Officina Meme ha vinto una menzione all’interno del concorso RIUSO, con il progetto Darsena Pop Up.

 

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