«Stiamo rubando tutti i giorni con la gente in casa ma se la fortuna non gira…»

Le intercettazioni raccolte dalle cimici nascoste dai carabinieri di Faenza nell’auto raccontano la quotidianità e l’organizzazione della banda di quattro persone arrestate con l’accusa di 33 furti in abitazioni. Si vantano di quanto sono bravi, insultano la vittima di un furto che li ha scoperti e si lamentano quando il bottino è scarso

IMG 4676Nelle conversazioni spesso parlano di lavoro e di lavorare, con tutto quello che di solito va associato: la spartizione degli utili, gli sfoghi con la fidanzata per le giornate difficili, le imprecazioni contro la sorte quando non gira bene. Ma per quattro uomini albanesi tra 24 e 44 anni il lavoro consisteva nello svaligiare case e rivendere il bottino al ricettatore o usarlo per regali alle compagne. Le intercettazioni ambientali e telefoniche contenute nel provvedimento di fermo per indiziato di delitto, con cui sono stati arrestati dai carabinieri il 28 maggio a conclusione dell’operazione Skifterat, restituiscono uno spaccato sincero di come vivessero la loro quotidianità, tra spavalderia e senso del dovere.

I quattro sono Imer Dervishi (detto Marco, 29 anni), Edmond Alushi (detto Mondi, 30), Roland Ahmeti (detto Landi, 24) e Arjan Dani (detto Jani, 44). Il primo era il leader, l’ultimo faceva da autista con una Peugeout 308 per portarli sulle zone dei furti e tornare a riprenderli. Durante le razzie tenevano i contatti fra loro usando cellulari che cambiavano ogni 15-20 giorni. «Di chi è questo numero? – chiede uno dei quattro ricevendo una chiamata da un complice – Non mi stai chiamando da un numero di lavoro». E il ragazzo che il 29 dicembre scorso trovò un cellulare nel suo giardino di casa a Faenza mentre falciava l’erba non poteva immaginare che fosse proprio uno di quei telefonini, caduto dalla tasca di uno dei predoni mentre scavalcavano la recinzione per tentare un furto dal vicino. Una volta nelle mani del nucleo operativo radiomobile dell’Arma locale, che aveva ricevuto la denuncia della tentata effrazione, si è rivelato una miniera di informazioni. Poi sono seguiti mesi di appostamenti e pedinamenti.

Le cimici e i Gps installati nella Peugeot e in una Audi A5 usata per raggiungere il punto di ritrovo prima di andare al lavoro, hanno raccontato ai militari con chi avevano a che fare. «Abbiamo fatto un furto spettacolare», dice il capo la sera del 19 marzo scorso. Si vanta con gli amici: «L’ho aperto prestissimo, sono un figlio di puttana». E uno degli altri gli riconosce i meriti. Ma soprattutto il capo ci tiene a rimarcare il suo pelo sullo stomaco: dice che è molto coraggioso perché entra nelle case senza sapere se dentro c’è qualcuno, «in pochi entrano così». Ne conosce un altro: «Quel mio amico che adesso è dentro».

La stessa notte nell’abitacolo c’è anche tempo per fare i conti con le incombenze della vita quotidiana: «Domani è il 20, dobbiamo lavorare per pagare un po’ di debiti e dividersi i soldi dell’affitto». “Mondi” dice che sarebbe meglio pagare l’affitto anche qualche giorno prima del 30.

A chi lavora possono capitare pure gli infortuni. E così è per “Landi”. Durante un colpo si taglia a un piede e ai colleghi dice che per una settimana non andrà a lavorare. Dice proprio così. Ma il capo è inflessibile e insiste: «È più difficile in due». Anche perché il ferito è il più leggero tra loro e quindi più facile da alzare e far entrare. Ridono. E poi serve sempre manovalanza. Lo si capisce il 18 aprile quando parlano della fatica fatta con una cassaforte: tenerla 20 minuti sulle spalle non è cosa da tutti.

«Oggi uno schifo proprio, 60 euro abbiamo guadagnato, 20 euro a testa, non è niente», lamenta uno di loro incontrando la fidanzata alle 3 del mattino al rientro dalla notte di razzie. Dando elementi utili agli inquirenti per quanto riguarda le accuse. La donna lo consola – «Bravo, almeno hai fatto qualcosa» – ma l’altro è proprio seccato: «Ma che bravo il cazzo». Del resto quando non hai la fortuna dalla tua parte c’è poco da fare: «Stiamo rubando tutti i giorni ma se la fortuna non vuole. Non vuole andare questi giorni neanche a morire, divento matto».

È ancora in un altro dialogo con la fidanzata che emerge l’aggressività e la sfrontatezza di chi entra nelle case senza sapere chi c’è dentro: «Una vecchia di merda stare tra un po’ l’ammazzavo. Sono entrato dal balcone, abbiamo fatto piano, non so come cazzo ha sentito quella puttana. Mi ha visto nell’ombra e ha chiamato “Franco, Franco, prendi il fucile ci sono i ladri in casa”. Là mi veniva da ammazzarla, di dirgli puttana di merda. Ma ce ne siamo andati senza fare casino. Tanto erano dei barboni, forse gli prendevo i soldi della pensione, niente di più…». E pure quella casa sarà finita nella colonna di quelle fatte, come si capisce da un’intercettazione del 29 marzo. Uno dei componenti indica una casa in mezzo al bosco ma il capo lo rimette subito al suo posto: «Quella rossa l’abbiamo già fatta e abbiamo preso un Rolex là».

È comprensibile, avendo chiaro lo spessore criminale della banda, il loro stupore per essere stati scoperti. I trucchi li conoscono: «Nelle case vecchie bisogna stare attenti con le porte che scricchiolano». E prima di entrare in azione bisogna studiare: «Una casa la guardi di lato in lato, aspetti due minuti, guardi e ascolti». Non è un caso che il capitano Cristiano Marella, comandante della compagnia di Faenza, dica che il gruppo studiava gli obiettivi preventivamente «come dei soldati che devono assaltare un fortino».

Nel gergo della banda ci sono i blu e i neri, rispettivamente polizia e carabinieri. E così la sera del 29 marzo verso le 21 c’è grande euforia: «Ho rubato la pistola al nero», dice il capo ridendo. Per rubare il ferro a una guardia bisogna essere uno che ci sa fare: «Sono un skifter, fanculo, non sono una lepre». In albanese skifter è il falco, il predone. Così si consideravano. Sarà stato un brutto colpo per l’orgoglio poi accorgersi che la pistola del nero era invece una scacciacani, solo simile al modello in dotazione alle forze dell’ordine.

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