Dalla bomba di Bologna alla pandemia Covid, 40 anni da medico tra 118 e Rianimazione

Elisoccorso, terapia intensiva e responsabile donazione organi: Alberto Garelli racconta una carriera vissuta in prima linea. Una ferma convinzione: «Sfruttare in modo indecoroso le tecniche moderne per prolungare sofferenze e agonie del paziente credo che sia una delle iatture più grandi nella medicina intensivistica»

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Il dottor Alberto Garelli a bordo dell’elicottero del 118

Alla vigilia del pensionamento gli ex colleghi già lo prendevano in giro dicendo che sarebbe finito a fare l’umarell davanti ai cantieri stradali, ma lui da pensionato parla ancora usando la prima persona plurale e non la terza: dice “noi del reparto” e non “loro dell’ospedale”. Perché quarant’anni passati tra Rianimazione e elisoccorso a Ravenna non si dimenticano in venti giorni. Il dottor Alberto Garelli, medico rianimatore originario di Bologna, è in pensione dall’1 dicembre e quando l’equipe di Terapia intensiva ci ha mandato due righe in redazione per un saluto a sorpresa tramite il nostro sito, ci siamo detti che la sua poteva essere una testimonianza che meritava di essere ascoltata. E gli abbiamo telefonato.

Dottor Garelli, da dove cominciamo?
«8 aprile 1981».

È stato il suo primo giorno di lavoro? Se lo ricorda?
«Me lo ricordo benissimo. Al reparto di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale di Faenza dove sono rimasto fino al 1994 quando sono passato a Ravenna. Mi ero laureato nel 1979 e cominciai dopo aver fatto un tirocinio pratico di un anno al Sant’Orsola. A quel tempo non era richiesta la scuola di specialità di cinque anni».

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Garelli in turno in Rianimazione a Ravenna

Faenza era un ospedale a tutti gli effetti…
«C’erano tutte le specialità, addirittura due divisioni di chirugia generale. Però Tac e Risonanze non si facevano nemmeno a Ravenna: per un sospetto ictus bisognava andare al “Bellaria” di Bologna. A volte nelle chiacchierate nei turni di notte racconto quei tempi ai giovani specializzandi e non ci credono».

Hotel-Bravo, Hb, è invece la sigla con cui viene indicato l’elicottero del 118 nelle comunicazioni radio. Quando ha cominciato?
«Dal 1987 quando il servizio è stato introdotto in modo regolare dopo un anno di sperimentazione».

Chi c’è a bordo?
«L’equipaggio è composto da quattro persone: il pilota, un assistente di volo che è un infermiere ma si occupa principalmente della sicurezza a terra e delle comunicazioni sanitarie via radio, poi un infermiere e un medico rianimatore che fanno l’intervento vero e proprio. Il personale viene scelto su base volontaria: oggi i medici sono circa 15-20 che ruotano. Tutti fanno una formazione aggiuntiva».

Che lavoro è?
«Sei da solo con l’infermiere, non hai alle spalle il supporto di una struttura ospedaliera: devi prendere decisioni veloci, devi valutare le priorità quando ci sono più feriti e i rinforzi non sono ancora arrivati. La tua decisione può fare la differenza fra la vita e la morte di qualcuno».

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E le condizioni di intervento possono anche non essere agevoli…
«In spiaggia d’estate con 40 gradi, in inverno con la neve, in un fosso nel fango: puoi ritrovarti davvero nelle condizioni più difficili. E voli su un mezzo che ha anche qualche rischio. A volte ripenso a quando ho scelto di fare medicina: a chi mi chiedeva perché non facessi il dentista per le ragioni economiche rispondevo che non mi andava di mettere le mani in bocca alla gente…».

La paura di sbagliare un intervento può essere un freno? Il timore di una denuncia dai familiari di un paziente incide sulla serenità del professionista?
«Lei parla della cosiddetta medicina difensiva e tocca un tasto dolente. È innegabile che in certe situazioni i comportamenti di qualcuno siano stati dettati dalla paura di mettersi nei guai. Per una certa diagnosi possono bastare 5 esami? E qualcuno invece ne chiede dieci per stare sicuro. Il vero professionista non lo fa ma è chiaro che questo succede. Di sicuro la medicina d’emergenza vive meno questa situazione perché le decisioni vanno prese in pochi minuti: se aspetti può essere troppo tardi».

Tra i suoi incarichi c’è stato anche quello di referente territoriale per la donazione organi. È un tema di cui si parla poco: com’è la situazione?
«Se ne parla poco perché la gente fatica a parlare della propria morte. Posso dire che in provincia abbiamo sempre raggiunto i livelli previsti dal coordinamento nazionale».

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Il 2 agosto 1980 Alberto Garelli era al Sant’Orsola

Qual è la procedura?
«A parte le donazioni di fegato o di un rene che possono essere fatte da vivente, gli altri organi possono essere espiantati dopo il decesso: parliamo della morte del cervello certificata da criteri neurologici. Ma la morte deve avvenire in ospedale in modo che in Rianimazione si faccia proseguire l’attività del cuore per mantenere irrorati i tessuti il tempo necessario per andare in sala operatoria».

C’è disponibilità a donare?
«Purtroppo sono ancora molti i rifiuti, del soggetto in vita o dei parenti: sinceramente non capirò mai questa scelta. Possiamo solo cercare di fare sensibilizzazione, di fare propaganda a favore di questa procedura. Partendo dai giovani. Ma è un lavoro sul lungo periodo».

Quando è il momento opportuno per toccare l’argomento con gli interessati?
«Non fino a quando la persona è viva perché si potrebbe generare l’errata convinzione che ci sia l’interesse nel portarlo alla morte. E ovviamente non è così. Però dopo il decesso i tempi sono stretti: sei ore, il tempo in cui si può mantenere l’attività del cuore per verificare la conferma della morte cerebrale».

Quasi quarant’anni di carriera. Quali sono stati i momenti più critici?
«Ho cominciato presto: ero un imberbe medico in tirocinio al Sant’Orsola il 2 agosto 1980 quando scoppiò la bomba alla stazione di Bologna. E poi quella volta nel 1998 in cui mi trovai sull’Adriatica in un incidente stradale con tre carabinieri morti sul colpo. Ed ero in reparto a Ravenna nel 2003 quando ci fu l’incendio in Rianimazione».

Elisoccorso 118E poi è arrivata una pandemia. Gli ospedali erano pronti?
«Faccio questo esempio: non possiamo avere autostrade a otto corsie per affrontare gli esodi estivi. Cosa ce ne faremmo nel resto dell’anno? La stessa cosa vale per le dotazioni sanitarie. Purtroppo la gente ha la memoria corta e dimentica quanto è migliorata la tanto criticata sanità pubblica».

Forse ci sono stati troppi tagli?
«Non sono d’accordo. Dobbiamo anche pensare che in certi servizi l’offerta fa la domanda. Mi spiego. Il pronto soccorso di Ravenna quando si è ampliato ha visto aumentare gli accessi perché le persone sanno che c’è una disponibilità. Purtroppo è un reparto in grande sofferenza soprattutto per il mare magnun di accessi impropri».

Cosa succede a chi arriva in terapia intensiva con il Covid?
«Quando arrivano in un reparto così specifico abbiamo visto che nel 95 percento dei casi finiscono per aver bisogno di intubazione tracheale o sedazione e ventilazione meccanica. E la mortalità è alta perché si cerca di dare la ventilazione solo quando è davvero l’ultima possibilità. C’è una ragione. Non parliamo della panacea: la ventilazione meccanica, per come è fatta, può anche peggiorare la situazione di polmoni già compromessi: serve il tempo minimo indispensabile perché il paziente guarisca dall’infezione virale».

Ospedale RavennaNel salutarla, i colleghi di reparto hanno sottolineato la sua “capacità di riconoscere e rispettare la dignità umana anche in situazione critiche”. Da cosa pensa che venga questo apprezzamento?
«Mi fa molto piacere sentirlo dire. Credo si riferiscano a una cosa cui tengo molto: non mi sono mai permesso di accanirmi terapeuticamente su un paziente. Sfruttare in modo indecoroso le capacità che la tecnica moderna ci mette a disposizione per prolungare indebitamente sofferenze e agonie credo che sia una delle iatture più grandi nella medicina intensivistica. Ma non confondiamo questo con l’eutanasia che è tutt’altro. Tutti pazienti hanno diritto a essere curati, non esiste il malato incurabile, ma la cura va proporzionata a tanti aspetti: tipo di malattia, prognosi, età, comorbidità e anche situazioni socio-familiari. E non è una valutazione che può fare il singolo medico ma sempre una equipe: giungere a decisioni di desistenza vuol dire non curarlo in modo eccessivo».

 

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