Da qualche anno gira uno spettacolo, nato quasi in sordina, che sta entusiasmando pubblico e critica. Gramsci Gay, del ravennate Iacopo Gardelli, prodotto da Studio Doïz e Accademia Perduta/Romagna Teatri, e con la regia di un altro ravennate, Matteo Gatta, è un doppio monologo in cui Antonio Gramsci entra in cortocircuito con la figura che nel 2019 vandalizzò a Bari il murales a lui dedicato. Grande protagonista dello spettacolo è l’attore siciliano I (ha lavorato anche con Ridley Scott), che abbiamo sentito in occasione della 21ª edizione del Premio Nazionale Franco Enriquez 2025 – Città di Sirolo nell’ambito della quale, lo scorso 30 agosto, gli è stato consegnato riconoscimento come “Miglior Interprete” nella categoria Teatro Classico e Contemporaneo – Sez. Nuove proposte.
Mauro, qual è la genesi di Gramsci Gay?
«Partiamo da un fatto concreto: Gramsci Gay è per me, nora, uno degli spettacoli più importanti della mia carriera, nel senso che continua a confermarsi – al di là del futuro che avrà – una delle mie esperienze più importanti, sia come attore che come autore/interprete, ossia come artista che esplora anche una propria autoralità in scena. Il progetto è nato da un’idea del regista e amico Matteo Gatta, che inizialmente aveva un’idea, generale, di lavorare sulla politica, ma che però non sapevamo come oggettivare, dove portare. Sennonché, un giorno venne fuori la questione della mia somiglianza prettamente fisica con Antonio Gramsci, e allora Iacopo Gardelli iniziò a mettere insieme pezzi dai tantissimi e disparatissimi scritti di Gramsci per arrivare a ciò che si voleva, cioè delineare una figura politica potentissima ancora in grado di parlare al presente. Quando ho letto la prima stesura è accaduta una di quelle cose stupende che accadono raramente nelle carriere degli attori, ossia provare la sensazione fortissima che quel testo ti appartenga e che non aspettava altro che il momento in cui tu lo potessi portare in scena. Quelle parole sono talmente belle, immense, anche nella loro chirurgica semplicità (e chiaramente c’è anche un’aderenza personale ai contenuti), che alla prima lettura mi sono entusiasmato e quasi commosso alla possibilità di poterle incarnare».
Nella prima parte dello spettacolo ti trasformi davvero in Gramsci.
«È stato molto difficile, perché se da un lato c’era l’entusiasmo dall’altro c’era la lingua che usiamo appunto nella prima parte, in cui interpreto Gramsci, una lingua profondamente accurata, non contemporanea. All’inizio non mi sentivo all’altezza di questo compito, la grandezza di quel pensiero è quasi spaventosa, e per come piace a me fare il mio mestiere, per poter veramente essere in grado di emanare quella potenza, ciò significava fare un lavoro di aderenza e incarnamento enorme. Però, con il fondamentale aiuto di Matteo e Iacopo, si è lavorato in maniera certosina proprio affinché le parole di Gramsci nascessero dentro di me arrivando a un’emanazione di quel pensiero talmente radicata che ogni volta che mi ritrovo in scena a fare la prima parte, la più difficile, ho bisogno di una concentrazione enorme. Adesso sono in grado di librarmi bene su questo ruolo, perché abbiamo lavorato in modo tale da affondare nel nucleo di quei concetti politici, tanto che ogni volta che mi ritrovo a dire quelle parole mi sembra che siano state scritte ieri».
Invece per la seconda parte, quella in cui interpreti il personaggio di Nino Russo, come è stato l’approccio?
«Ci siamo mossi in maniera completamente diversa. Volevamo far reagire chimicamente la seconda parte con la prima, e mentre ci stavamo lavorando è saltata fuori la notizia che a Bari un ignoto aveva deturpato il murales dedicato a Gramsci sul carcere di Turi con la scritta “GAY”, ed ecco quindi la corrispondenza che cercavamo. Da lì abbiamo lavorato totalmente di improvvisazione, e siccome sono molto legato alle mie origini siciliane, abbiamo puntato su quella che chiamo la mia “mitologia di origine” e su un elemento di quelle figure di questa mia mitologia regionale che poteva corrispondere a questo ipotetico vandalo (che non è mai stato individuato) e che abbiamo battezzato Nino Russo. Ho voluto così lavorare su quelle che sono reminiscenze delle mie origini, per poter però attraverso quelle empatizzare con quella figura, non soltanto condannarla. Nella scrittura abbiamo reso Nino molto divertente e leggero, cercando però anche di comprendere quali erano le motivazioni che lo avevano spinto all’atto di vandalismo. E anche qui volevamo capire qual era la “carne” di questo personaggio, per poterlo poi portare in scena – per quanto in un mondo sideralmente opposto – con la stessa aderenza della prima parte».
Cosa ti ha lasciato l’approfondimento di Gramsci?
«Vale il discorso di prima, è come quando si scopre un autore o un libro che ti rendi conto che ti porterai dietro per tutta la vita. Sono sempre stato una persona molto studiosa, mi piace studiare e leggere, e quando mi son ritrovato di fronte ad Antonio Gramsci, che è una figura di enorme levatura anche a livello letterario, mi sono incuriosito e sono andato a leggere tante cose sue e credo, per quelle che sono le mie inclinazioni politiche, di aver trovato una profondità di analisi del mondo, della società e della collettività tale da sentire proprio una sorta di “prima e dopo” la conoscenza di Gramsci. La prima parte dello spettacolo, ogni volta che la faccio, non è soltanto una riflessione su come stare al mondo, con gli altri, su cosa significhi affrontare l’impegno politico, ma, per me, è anche una sorta di seduta di psicoterapia personale, perché quello che dice Gramsci riguardo allo stare al mondo lo si potrebbe benissimo leggere come un modo con cui affrontare i propri problemi, i dubbi, perché Gramsci ti porta a un’analisi talmente lucida delle cose che la puoi gestire sia nelle tue scelte con gli altri che nelle tue scelte personali come individuo».
Oltre che in teatro hai lavorato molto nel cinema, hai una dimensione che prediligi?
«Ci riflettevo in questi giorni. Sto ritornando un po’ alle origini della vocazione teatrale, ma forse proprio per il momento storico: trovo che in questo momento sia molto più potente salire su un palcoscenico e parlare a un pubblico in carne e ossa. Cosa molto soggettiva, chiaramente, però devo dire che questo è quello che sento, soprattutto a partire dalla tournée di Gramsci Gay, da quando mi sono trovato a portare in giro queste parole, lo spettacolo mi ha fatto reinnamorare del mio lavoro».
Com’è stato lavorare con Ridley Scott in House of Gucci?
«È stata una delle giornate più divertenti della mia vita. Lady Gaga, la protagonista, che è di origini siciliane, è impazzita quando ha saputo che ero siciliano. Ma la cosa che ho più apprezzato, da italiano, è stata la grandissima professionalità del set, perché, da figlio di nessuno, mi sono ritrovato Ridley Scott che mi è venuto subito a salutare (pur facendo io una parte minuscola) e appena prima la boss della Metro Goldwyn Mayer che mi è venuta ad accogliere dicendomi che erano contentissimi di avermi nel cast, cosa che, ti assicuro, in Italia non succederebbe mai».