«La musica indipendente? È una minchiata». Parola di Cesare Basile, raggiunto al telefono poco prima di essere premiato come “Artista indipendente dell’anno” al Mei di Faenza (quattro giorni di eventi con un programma sterminato che è possibile consultare a questo link).
«Oggi la musica indipendente non esiste. E in questo sta anche il grosso errore di una manifestazione come il Mei, che cerca di farne un genere, come per esempio l’hip hop, e di conseguenza una categoria commerciale. Esistono invece artisti e musicisti liberi: non si diventa indipendenti perché si fa parte di un mondo che si autoproclama tale. La musica indipendente non per niente nasce negli anni Ottanta nella scena hardcore americana, con autoproduzioni e ragazzi che non trovando spazio nei circuiti ufficiali si organizzavano fuori di essi, con altri principi e ispirazioni. Come si fa a chiamare invece oggi musica indipendente una che poi alla fine ripropone gli schemi, le organizzazioni e le strutture gerarchiche di quella commerciale?».
Finita la parentesi. Il siciliano Cesare Basile, 51 anni, è uno dei più grandi cantautori che l’Italia abbia prodotto dagli anni novanta a oggi e ultimamente pare se ne siano accorti anche i fantomatici addetti ai lavori. Sabato 3 ottobre riceverà il premio del Mei di cui sopra e nel frattempo ha vinto la Targa Tenco per il miglior album in dialetto del 2015, il suo Tu prenditi l’amore che vuoi (che è solo in parte in dialetto siciliano, va precisato). La stessa targa che due anni fa rifiutò di ritirare in aperta contestazione al Club Tenco che organizza il premio.
Cesare, ma quindi verrai al Mei?
«Certo, di mestiere non faccio quello che non ritira i premi…».
E due anni fa al Tenco come andò?
«Quel gesto va contestualizzato: il Club Tenco ai tempi, in ossequio al suo sponsor maggiore, che è la Siae, annullò un evento al teatro Valle occupato di Roma, preferendo così non prendere posizione nella diatriba che si era scatenata in quel periodo (la Siae si era scagliata contro i teatri occupati parlandone come sorta di concorrenza sleale per gli altri, ndr). Io credo invece che il Tenco avrebbe dovuto schierarsi e ho fatto la mia scelta per essere in pace con me stesso, rispettare le mie convinzioni ed essere solidale con gli occupanti (Basile è esso stesso protagonista dell’occupazione del teatro Coppola di Catania, ndr)».
Non è certo la prima volta che prendevi posizioni politiche: perché credi sia giusto come artista? E perché siete in così pochi a farlo?
«Ognuno fa quello che sente più necessario. Personalmente in questi anni ho avuto questa esigenza forte di, appunto, prendere posizioni e schierarmi (Basile è noto anche per aver appoggiato la causa dei No Muos contro la base militare di Niscemi, per esempio, ndr). Non credo che l’arte abbia delle responsabilità, però può svolgere un ruolo. E può scegliere: può essere parte dell’intrattenimento e può essere parte anche di un conflitto. Io credo che questi siano tempi di conflitto: anche se il potere ci racconta di una riconciliazione, la frattura fra il potere e le persone è sempre più larga e io mi sento in dovere di raccontare questa frattura».
Seguendoti pare che nella tua Sicilia questa frattura sia più evidente…
«In questo momento la Sicilia è un posto dove il conflitto fra il territorio e chi governa il territorio è lampante: non c’è nessun tipo di comunicazione, nessun tipo di rispetto verso i cittadini, verso le esigenze di chi sta peggio. Rispetto al resto d’Italia forse qui non c’è neppure un tentativo di nascondere i problemi, neppure una falsa copertina per affrontare il freddo…».
E dal punto di vista musicale? La scena siciliana, catanese in particolare, era molto fervida…
«Non ho mai creduto molto alla “scena”, temo sia il più delle volte una semplificazione inventata da chi ha interesse a vendere delle scene. Sicuramente c’è tanta gente che fa tanto, a Palermo come a Catania, dove si sta ricomponendo un tessuto con fatti, nonostante sia sempre più complicato per la crisi, soprattutto di socialità, che stiamo vivendo».
Venendo alla tua carriera, con il tuo ultimo disco, il nono, confermi una coerenza invidiabile, un percorso musicale lontano dai compromessi.
«Forse fino a qualche anno fa prestavo troppa attenzione al riscontro del pubblico e ora posso dire che è stato uno dei miei grossi limiti. Mi sono ripreso il mio amore per la musica e ho ricominciato a farla senza aspettarmi niente, ritrovando in questo modo un equilibrio che in passato avevo perso. Ho ricominciato a masticare libertà. Non che le mie produzioni siano mai state davvero influenzate dal riscontro, ma sarei falso e ipocrita a dire che non mi dannavo per ottenerlo. E questo mi influenzava negativamente».
Perché negli ultimi album hai introdotto il dialetto siciliano nei testi?
«Il dialetto per me è uno strumento e gli strumenti li scegli in base a quello che vuoi dire. Da quando sono tornato a vivere in Sicilia l’ho riscoperto, ricostruendo il rapporto con la mia terra e trovandolo come una sorta di scrigno, di tesoro. Dal punto di vista narrativo è molto forte, non conosce compromessi. Ci trovi dentro la storia della mia terra: l’arabo, lo spagnolo, l’inglese, il francese. Una miniera inesauribile».
Anche per il dialetto ti hanno paragonato più volte a Fabrizio De André ma nella tua musica c’è sempre stato anche molto rock americano. Cosa ti ha più influenzato?
«Gli ascolti disparati, i libri, ma soprattutto un’attitudine alla non organizzazione delle fonti. Non mi sono mai sforzato di conciliare le fonti, arrivavano e si mischiavano, fino a comporre la mia strada»,
Com’è oggi fare musica in Italia?
«Tra assurdi diritti d’autore e case discografiche, agenzie che determinano situazioni di monopolio, alcuni locali che ne determinano altre di trust, fondamentalmente è innanzitutto l’amore che ti muove a fare musica. Mi rendo conto che è retorica, ma in questi tempi in cui tutti utilizzano il cinismo per cercare di essere superiori, credo che ci sia un po’ bisogno di retorica. E credo, tornando all’inizio, che si debba fare musica solo se l’esigenza di farla è forte, se non puoi farne a meno».