lunedì
07 Luglio 2025
l'intervista

Dalla Bbc allo spot Volkswagen I romagnoli Sacri Cuori e quel successo lontano dalle mode

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«Arrivare a prendere quattro stelle sul Guardian e quattro su Record Collector, essere trasmessi dalla Bbc, dalla radio nazionale australiana e tedesca, dalla Rai, da una radio in Iowa e una in Canada nello stesso giorno, e poi finire in uno spot della Volkswagen in Svezia è una cosa che è capitata a pochissimi gruppi italiani nella storia, forse a nessuno». A mettere in fila alcuni fatti, con giustificato orgoglio, è Antonio Gramentieri, chitarrista e leader (a doverne scegliere uno) dei Sacri Cuori, band romagnola che con il suo ultimo album Delone – grazie anche alla presenza di ospiti prestigiosi come Steve Shelley dei Sonic Youth, Howe Gelb o Marc Ribot – ha fatto parlare di sé un po’ tutta la stampa specializzata del mondo. I Sacri Cuori – con il loro suono che intreccia folk, rock e blues in particolare del deserto americano con la tradizione della colonna sonora all’italiana – saranno in concerto il 31 ottobre al Bronson di Madonna dell’Albero. Per l’occasione, abbiamo incontrato lo stesso Gramentieri.

Che idea ti sei fatto del successo ottenuto dal vostro ultimo disco?
«I feedback intorno a Delone sono stati straordinari. Se dicessi una cosa diversa sarei poco sincero. È una grande soddisfazione, che ripaga di un percorso fatto senza fare sconti e cercare scorciatoie. Certo che l’idea stessa di “successo” nel 2015 è da calibrare con i tempi che corrono, specie in musica. Se escludi una decina di nomi famosissimi, non esiste più una popolarità di medio livello spalmata su tutti i livelli, ma piuttosto tutta una serie di nicchie e di micromondi con i propri nomi di riferimento, completamente sconosciuti e ignorati dalla nicchia a fianco. Sacri Cuori, al di là dei riconoscimenti internazionali, restano un gruppo che incontri se fai un certo tipo di viaggio musicale, non siamo mai particolarmente “di moda”, abbiamo un percorso di altro tipo. Che cresce e si allarga, ma alle proprie condizioni».

Come nascono e come vi influenzano le numerose collaborazioni? Penso per esempio alle voci femminili con cui avete potuto affrontare di più la forma canzone classica, voi che nascete come gruppo interamente strumentale.
«La nostra identità è da principio più simile a quella del collettivo che a quella di una band in senso stretto. Gli incontri fanno parte del nostro Dna, dentro e fuori dal gruppo, e reagire anche in senso sonoro agli incontri è una delle nostre prerogative e delle nostre qualità. Avvicinarsi alla forma canzone per me è una cosa molto naturale, e nasce da un amore incondizionato per la melodia. Anche i nostri brani strumentali sono sempre stati più vicini a “canzoni senza parole” che non alle geometrie post rock, o al turnaround jazz/blues. Se incontriamo una voce che ci dice qualcosa, la canzone ci sta tutta».

Il suono dei Sacri Cuori è molto cinematografico, quanto c’è di programmato e quanto di naturale in questo?
«Quando la musica lavora per immagini, non solo si sovrappone a un ambiente, ma lo colora, dà un senso diverso a quanto ci accade dentro. Questa è una cosa che mi ha affascinato da sempre. Il primo disco che ho comprato nella mia vita, se escludiamo il 45 giri di Furia Cavallo del West, è stata la colonna sonora di 1997, Fuga da New York. È una passione con radici profonde».

Spesso parlando delle vostre influenze vengono citati classici americani del rock di frontiera o gruppi più recenti molto identificabili come i Calexico: cosa ne pensi e quali sono le vere influenze dei Sacri Cuori? Vi sentite ristretti in un determinato genere?
«Io ho nelle mani molta tradizione americana, perché mi sono formato con quel linguaggio, affinando negli anni un punto di contatto fra quel tipo di graffio blues e una sensibilità melodica più mediterranea. Detto questo, i riferimenti diretti in Sacri Cuori sono abbastanza fuori da quel mondo. Direi Paolo Conte, Manuel Galban, Armando Trovajoli, Santo & Johnny, Al Caiola, Doug Sahm, Nino Rota, le orchestre romagnole e altri grandi melodisti. Quanto ai paragoni: mi rendo conto che per una certa generazione di ascoltatori la frontiera sia la terra dei Calexico, che pure sono bravi e soprattutto cari amici. Però diciamo che guardando più da vicino, la frontiera è sempre stata una zona molto affollata di musica, da molti anni prima che John e Joey re-impacchettassero quel suono per il pubblico indie, peraltro bene».

Tu, oltre a suonare nei Sacri Cuori, collabori con altri artisti, produci dischi, organizzi concerti: si può vivere di musica in Italia?
«Sì, se per “vivere di musica” si intende farlo seriamente. Una passione vera e un impegno quotidiano per tenere l’asticella alta, non giocare al ribasso, non chiudersi in un angolo. Si può vivere di musica se si è consci che esistono scorciatoie e furbizie per diventare celebri un giorno, ma non esistono scorciatoie se si vuole diventare bravi. Serve continuare a imparare e soprattutto serve tenere la musica in circolo, non solo la propria. Che qui o gira la ruota, tutta, o si ferma per tutti. Serve anche disciplina, per tenere distante l’invidia da sé e dagli altri. Essere musicisti è un mestiere molto emotivo. Occorre stare attenti a non diventare cinici sui successi e sui talenti altrui, comprenderli, riconoscerli e imparare sempre qualcosa. In una scena musicalmente molto densa come quella romagnola si potrebbe lavorare molto di più insieme, ma occorre tenere a bada l’ego. Quello sostanziale, non quello apparente. Quello che porta ogni musicista ad ascoltare sostanzialmente soltanto le proprie cose. Occorre ascoltare molto, andare ai concerti, sostenere la scena e i propri colleghi. In genere se non si riesce a campare di musica la colpa è nostra, e di quello che facciamo, non del “sistema”».

Cosa non sopporti della cosiddetta “scena italiana” e di tutto quello che ci gira intorno?
«Non saprei. In generale ho una soglia di tolleranza molto bassa per la musica atteggiata. E per la musica suonata male, dove “male” per me vuole dire soprattutto senza personalità e con brutti suoni. E tollero male anche le mode che una volta all’anno, improvvisamente, mettono d’accordo tutti, ma proprio tutti, sullo stesso nome. Questo, capirai, mi mette in una posizione difficile rispetto a molta musica delle generazioni più giovani e alle modalità con cui si pone, figlie del social e dello slogan. Tuttavia cerco di non parlare mai di “generi” ma di casi specifici. E allora anche nell’indie italiano ci sono cose più o meno belle. Come in tutte le musiche».

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