Tutti i personaggi di Elena Bucci

Da Russi alla Cina, con Le Belle Bandiere

Ispirandosi alle parole di Pier Paolo Pasolini, Elena Bucci e Marco Sgrosso creano nel 1993 Le belle bandiere: compagnia di  teatro romagnola, ma allo stesso tempo apolide.
Oggi a più di venti anni,  c’è un luogo che considerate casa?
«Ce n’è più di uno. Nonostante siamo una compagnia che collabora da anni con altre realtà,  dal Teatro Metastasio di Prato al Centro Teatrale Bresciano – dove saremo in scena per un mese di repliche – a Ert di Modena, abbiamo voluto una doppia sede a Bologna, dove ci siamo formati artisticamente e a Russi, la città dove sono nata, per dimostrare per primi a noi stessi che si possono creare progetti di rilevanza nazionale anche a partire da piccoli paesi amati».
A differenza di molti gruppi teatrali voi non avete un teatro o non organizzate una programmazione, è stata una scelta artistica o ci sono stati dei problemi di relazione con le amministrazioni…
«C’è stato un momento in cui c’era un grande slancio a Russi per far ritrovare alla città un teatro, ancora distrutto dalla guerra. Noi facevamo spettacoli in posti magnifici, ma del tutto abbandonati. Nel 1993 facevamo spettacoli a San Giacomo mentre era completamente decadente, quando ci andavano solo spacciatori e delinquenti, e il pubblico ci seguiva commosso e partecipe».
E il teatro di Russi?
«Abbiamo contribuito con entusiasmo a farlo riaprire, attraverso eventi e spettacoli, ma quando poi è accaduto, nel 2001, pur avendo la bella possibilità di lavorare e provare nel teatro non si sono create le condizioni per una progettualità più articolata, come forse potrà accadere in futuro. Forse qualcuno aveva l’infondata paura che ci volessimo appropriare del teatro, ma chi ha assistito al progetto di rinascita di questo teatro lo associa anche a noi e alla nostra passione, e questo ci fa molto piacere. Il senso di appartenenza a questi luoghi ci ha tenuto legati qui, nonostante i molti viaggi e le opportunità. Ci piacerebbe che i teatri e il luoghi della culutra rimanessero sempre aperti, in una programmazione continua e in un ininterrotto scambio di idee, progetti, linguaggi. Una casa aperta a tutti».
Sei tornata a Russi dopo aver lavorato oltre dieci anni con Leo De Berardinis, cosa ti ha lasciato il lavoro con un grande del teatro come lui?
«Mi sono accorta di aver acquisito tecnica e libertà con grande divertimento in quel periodo. Dovevamo essere pronti in ogni momento a correre il rischio di affrontare la scena, in prova come in spettacolo, perché era un autore molto esigente e appassionato. Lui chiedeva una adesione intima e totale allo spettacolo, e un grande rigore tecnico. Mi ha insegnato che la tecnica è uno strumento di libertà, un modo per arrivare al risultato artistico che si vuole ottenere. Mi ha insegnato anche come l’intuizione possa essere veloce e inaspettata, e possa nascere dalla paura, ribaltandola. Ribaltare l’ostacolo trasformandolo in estasi».
Cosa ti stai insegnando da sola?
«A non affezionarsi alle soluzioni che già si conoscono. Avere il coraggio di buttare via tutto e ricominciare da capo».
A fine novembre sei stata ospite a Rai Radio3 per presentare le tue interpretazioni negli anni…
«Io ho accettato l’invito di Laura Palmieri di Radio3 e ho creato Vite altrove, dove dialogano personaggi femminili dei miei lavori, personaggi molto distanti tra loro».
A quali di questi personaggi sei rimasta più legata negli anni?
«I miei personaggi sono come miei parenti, sono totem del mio essere, figure che vengono dalla Commedia dell’arte come Isabella Andreini, dal teatro ottocentesco come Eleonora Duse, sulla quale ho lavorato molto, la monaca messicana Juana de la Cruz, scrittrice libera e indipendente vessata dall’Inquisizione, ma anche figure importanti della mia vita. Donne famose e non famose, messe assieme. Laura Mariani ha detto che trasformo le persone reali in personaggi è mi è sembrato un commento molto affascinante».
Adesso sei in partenza per la Cina dove porterai una Locandiera di Goldoni, come vedrà un testo così un pubblico tanto distante? Avete preso degli accorgimenti per andare incontro ai loro gusti?
«È stato proprio il teatro di Pechino a chiederci un testo della tradizione italiana. Noi faremo La locandiera identica a come la facciamo per il pubblico italiano. Abbiamo solo rallentato alcune battute per agevolare i sottotitoli».
Siete da poco stati anche a Mosca, cosa ti ha colpito degli spettatori russi rispetto al loro sguardo verso il teatro italiano?
«Ho scoperto un grande amore e passione per la cultura italiana. A volte non ci rendiamo conto di quanto sia adorata la nostra cultura nel mondo, per me è stata una bellissima sorpresa».
Hai avuto modo anche di pensare a progetti futuri?
«Mi sto documentando sul teatro nei lager e nei luoghi dell’olocausto, su cui presto inizieremo a lavorare e sto scrivendo, finalmente, non solo per il teatro, ma passando dal teatro. Naturalmente nessuno di questi risultati sarebbe possibile senza l’aiuto di chi ha fondato con me la compagnia, Marco Sgrosso e di tutti coloro che formano il nucleo di attori, artisti e tecnici che da anni ci sostengono e ci seguono».

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