L’addio di Spadoni: «Al Mar risorse dimezzate, così non si può lavorare»

Lo storico direttore a tutto campo, tra polemiche e rimpianti
alla vigilia della vernice della mostra da Picasso a Duchamp

Lo incontriamo nel suo vecchio ufficio, in un museo quasi deserto, nonostante manchino pochi giorni all’inaugurazione del 20 febbraio della grande mostra del 2016 (vedi tra i correlati). «Ad allestire siamo in tre-quattro in tutto, neanche in teoria tenuti a farlo, tra cui custode, curatore e registrar (colui che di fatto cura l’organizzazione dal punto di vista tecnico, ndr). A Forlì, per esempio, ci sono all’opera qualche decina di allestitori, ogni sezione ha addirittura un piccolo staff, non so se rendo l’idea…». Allarga le braccia Claudio Spadoni, direttore del Museo d’Arte della città di Ravenna (Mar) fino al 2012, quando andò formalmente in pensione continuando però a svolgere il suo ruolo prima come consulente esterno per il Comune e ora, da un paio d’anni, a spese della Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna.

Spadoni, inutile negarlo, continua a essere il Mar e viceversa. Un museo che ha rilanciato fino a farlo diventare tra i migliori italiani secondo una ricerca della stessa rivista (l’autorevole Il Giornale dell’arte) che pochi anni prima il suo ingresso lo aveva invece “incoronato” peggior museo d’Italia dal punto di vista della gestione. Ora il suo percorso è destinato a concludersi in maniera simbolica con una mostra il cui sottotitolo (“La seduzione dell’antico”) rappresenta anche il filo rosso – quello del confronto tra attualità e passato – che ha unito tutte le mostre del Mar targate Spadoni, che ora pare stanco soprattutto di alcune polemiche (in particolare non gli sono piaciute le critiche del presidente di Confcommercio, Mauro Mambelli) relative al numero dei visitatori e ai confronti con Forlì, che negli ultimi anni ha puntato tutto sulle grandi mostre dei Musei di San Domenico, investendo budget considerevoli.

Spadoni, cerchiamo di fare chiarezza sui numeri, per prima cosa.
«Mi sembra semplicemente molto scorretto dare numeri di affluenze, di resa, senza parlare dei costi (come fatto dallo stesso Mambelli e da alcuni soggetti politici in queste ultime settimane, ndr): altrove, a Forlì come a Ferrara, spendono circa quattro volte rispetto a noi (in media circa 2 milioni di euro contro poco più di mezzo milione, ndr), per essere corretti bisognerebbe allora fare paragoni con quelle città sommando i dati dei visitatori delle nostre ultime quattro mostre…».

Ma a Ravenna è sempre stato così?
«Assolutamente no. All’inizio potevamo contare quasi sul doppio del budget e sul doppio delle risorse umane. La prima mostra su Roberto Longhi, nel 2003, poteva contare su quasi un milione di euro (e non per niente, forse, resta la più visitata, con circa 55mila visitatori registrati, ndr) e negli anni immediatamente seguenti siamo oscillati tra 700 e 800mila euro, potendo contare oltretutto su uno staff composto da una quindicina di persone».

Oggi invece in quanti lavorate alla mostra?
«Circa la metà delle persone rispetto a quei tempi, in cui come istituzione (nata su iniziativa del Comune nel 2002, proprio con l’arrivo di Spadoni, per rilanciare l’attività culturale del museo, ndr) potevamo scegliere liberamente collaboratori, anche solo per brevi periodi, che pagavamo autonomamente. Tra pensionamenti, trasferimenti e l’impossibilità per legge di aprire nuove collaborazioni, non siamo più in numero sufficiente e non esiste più, per fare un esempio, anche solo un collaboratore dell’ufficio relazioni esterne che si occupi esclusivamente, come accadeva anni fa, di fare telefonate per promuovere la mostra e organizzare le visite dei gruppi».

Che il Comune si sia affidato troppo alle sue capacità? Potrebbero aver pensato: “Tanto ci pensa Spadoni a fare una bella mostra anche senza risorse”…
«Certo, non mi ha mai creduto nessuno fuori Ravenna quando dicevo che il Comune non mette più un euro (dal 2011 in avanti, ndr) per le attività espositive, che vorrei sottolineare non si limitano alla sola grande mostra, offrendo il Mar un ventaglio di offerte durante l’anno, senza mai un mese chiuso, come pochi altri musei possono vantare, spesso a costo zero, ma che portano comunque visitatori».

Qualche rimpianto?
«Diciamo che 7-8 anni fa sono stato molto indeciso: ero stato scelto tra poco meno di cento candidati per la direzione della Gam di Torino, probabilmente il museo più importante in Italia per ottocento e novecento. Ne parlai con il sindaco Matteucci, che mi chiese naturalmente di restare qui, essendo all’inizio del nostro percorso. Feci una scelta di cuore, ma restai anche perché credevo molto nel progetto e nel rilancio del museo di Ravenna, avevo una squadra giovane, selezionata e motivata, che avevo costruito personalmente. Davo per scontato che se avessimo dimostrato che la nascita dell’istituzione aveva effettivamente dato una nuova identità al museo, come confermavano gli apprezzamenti incondizionati della critica, il Comune avrebbe continuato a sostenerci come nei primi anni. Quando una cosa funziona penso che sia logico insistere o semmai potenziarla. Non è stato proprio così, forse anche per la congiuntura economica negativa, e adesso la situazione è cambiata».

Ma ne ha parlato con il sindaco, dopo che l’aveva convinta a restare?
«Ho spiegato credo in varie occasioni, anche in maniera abbastanza precisa, quali erano le necessità del museo e che cosa sarebbe stato necessario per poter continuare a restare almeno al livello dei primi anni, a fronte anche di una concorrenza serrata».

Quale crede che sia stata la strategia dell’Amministrazione?
«È stata fatta una scelta di frammentazione di risorse in campo culturale, che ha aspetti positivi e negativi. Da un certo punto di vista è una ricchezza perché si possono soddisfare esigenze diverse da parte del pubblico e assecondare abitudini della città. Dall’altra parte è ovvio che in questo modo si indeboliscono alcuni settori, quelli già più deboli…».

C’è chi dice che in fondo Ravenna è già una città d’arte, ha già i mosaici e potrebbe non aver così bisogno di grandi mostre, a differenza di Forlì, per esempio.
«Sono certo che Ravenna abbia ancora grandi potenzialità derivanti dalla propria storia e dalla consapevolezza della propria storia: puntando sulla propria identità si possono ottenere risultati anche nel presente e nel futuro, senza andare a caccia di chimere o copiare modelli altrui. Come dimostra una città d’arte come Ferrara. A Forlì invece la situazione è diversa, con il Comune che non avendo le risorse ha delegato una fondazione bancaria (la Cassa di Forlì, ndr) a occuparsi autonomamente del recupero di spazi meravigliosi per un progetto che è risultato vincente e che vede tutta la città coinvolta. Credo si faccia fatica a trovare un forlivese che non vada alla mostra, mentre i ravennati che vengono al Mar sono davvero pochi e sempre gli stessi».

A proposito di fondazioni bancarie, qui recentemente hanno investito o stanno investendo pesantemente sul restauro di palazzo Rasponi, la cui destinazione non è però ancora del tutto chiara, o sul museo di Classe, la cui inaugurazione slitta da anni. Cosa ne pensa?
«Sono state fatte scelte di politica culturale, degli investimenti, legittimamente, e che non commento. Ricordo che si diceva che erano investimenti giusti, che sarebbero stati un volano per il turismo. Vedremo. Al momento però sottolineo come a qualcuno non sembrino interessare altre offerte culturali, i numeri che fanno altre istituzioni o fondazioni presenti in città, in diversi settori culturali, a fronte di investimenti consistenti. Ma perché mai si tira in ballo solo il Mar?».

Del Mar, intanto, ha già parlato anche il candidato sindaco del Pd, Michele De Pascale, assicurando sul nostro giornale maggiori risorse per le grandi mostre in futuro…
«Se l’ha detto non ho motivo per non crederci. Mi permetto di fare una piccola osservazione però: una mostra seria, dall’ideazione alla verifica della fattibilità e alla realizzazione vera e propria, richiede come minimo un paio d’anni di preparazione. A questo punto per un’ipotetica ed eventuale grande mostra del 2017 bisognerebbe aver già iniziato a lavorare».

E lei ci ha già pensato?
«Assolutamente no, il mio contratto scade con questa mostra e nessuno mi ha chiesto nulla, qui a Ravenna».

Sarà quindi la sua ultima mostra al Mar?
«Suppongo di sì. A queste condizioni non mi sembra una bella prospettiva progettare per un museo in cui sono sempre più ridotti i margini di manovra, con risorse inadeguate, per poi farmi accusare di non aver portato abbastanza turisti a Ravenna».

Ma crede che in ogni caso il Comune dovrebbe investire maggiori risorse sul Mar?
«E a discapito di chi? Non credo che qui possa essere pensabile…».

Quale dovrebbe essere il profilo del suo successore?
«Credo che la soluzione più auspicabile per un museo sia quella del bando pubblico, o di una chiamata per titoli, ma indipendentemente dal metodo, bisognerà tenere conto di una complicazione che ha il museo di Ravenna, quello di essere contemporaneamente di arte antica e moderna-contemporanea, dal trecento in avanti, una tipologia un po’ insolita e che presupporrebbe nel direttore delle competenze in tutto quest’arco di tempo, o perlomeno una forma mentis e una formazione adeguata. La scelta credo debba essere tarata sull’immagine che il Comune vuole dare al museo. Dando per scontato che si cerchi un direttore scientifico (al momento, come noto, il direttore ufficialmente è Maria Grazia Marini, dirigente comunale, che si occupa prettamente della parte amministrativa, ndr) e non si voglia affidare di mostra in mostra l’incarico a un curatore diverso, facendo perdere però così al nostro museo una sua identità».

Quali sono le mostre che ricorda con più orgoglio tra quelle organizzate dal 2003 a oggi al Mar?
«Il filone degli storici dell’arte (Longhi, Arcangeli, Corrado Ricci e Testori, ndr) ha dato appunto al museo un’identità forte, siamo stati i primi a organizzare un ciclo di mostre non sugli artisti ma su coloro che hanno orientato il gusto e spostato le ricerche. Anche quella sul Dopoguerra in Italia non era mai stata fatta altrove in maniera così mirata mentre quella di Giacometti era la più grande e completa mai realizzata fino a quel momento in tutta Europa, tanto che ora sarebbe irrealizzabile anche solo per i costi di assicurazione che oggi risulterebbero più che decuplicati».

E una mostra che non rifarebbe?
«Diciamo che paradossalmente non rifarei in quel modo sempre quella su Corrado Ricci, forse tra le più importanti come standard qualitativo, ma fin troppo specialistica, per la quale avevo dato per scontato alcune conoscenze che invece non lo erano. E rimasi raggelato quando alcuni mi fermarono proprio in via Corrado Ricci, a Ravenna, per chiedermi chi fosse questo Corrado Ricci a cui stavo dedicando la mostra…».

Cosa farà dopo questa esposizione?
«Ho ricevuto alcune proposte concrete fuori regione, ma su pressione di moglie e figli credo che mi riposerò un po’, anche perché quello di Artefiera a Bologna (di cui è direttore, ndr) è comunque un impegno pesante e stressante».

In questi mesi entra nel vivo anche la campagna elettorale, mai pensato di fare politica?
«Mi fu chiesto in gioventù ma avevo altri interessi . E poi, troppi compromessi. Per quanto riguarda questa campagna elettorale, al momento il panorama complessivamente non mi pare entusiasmante. Penso comunque che la città abbia bisogno di qualche scossa, e anche di un cambio di mentalità. Ravenna sconta i problemi che ha una città piccola, aggravati dal suo relativo isolamento geografico. Credo che continui a essere una città parecchio chiusa e che proprio per questo ha accentuato la forma peggiore di provincialismo, ossia la paura stessa di apparire provinciale; una città dove si coltivano piccoli miti locali ma al tempo stesso si considera provinciale ciò che non lo è e si dà voce, attribuendo loro autorevolezza, a figure che in una città appena più grande non sarebbero ascoltate neanche nel loro quartiere».

Ha già deciso per chi votare?
«Deciderò a ragion veduta a tempo debito, non sono mai stato il tipo che avendo scelto una fede ne è rimasto tenacemente fedele, ma non sono nemmeno una banderuola che può passare da destra a sinistra con disinvoltura. Credo sempre di più che anche in politica la differenza la facciano gli uomini. Sono cresciuto all’ombra del campanile, i miei genitori erano cattolicissimi (il fratello Gianfranco è da anni esponente di spicco dell’Udc locale, ndr), ma io ho deciso di allontanarmi da quell’ombra convincendomi sempre di più che non avrei mai potuto iscrivermi a un partito e giurare fedeltà a un credo politico: tendenzialmente mi sento in totale sintonia con il mio maestro Francesco Arcangeli che si diceva anarchico. Ma per rivendicare, in questo modo, la mia totale autonomia di giudizio».

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