Experimental Jetset: dall’Olanda il potenziale politico del design

L’intervista al gruppo, tra gli ospiti
del festival Fahrenheit 39 di Ravenna

Tra gli ospiti più interessanti di questa edizione di Fahrenheit 39, la kermesse dedicata al graphic design che si svolge all’Almagià di Ravenna dall’8 al 10 aprile (info e programma a questo link), sono gli Experimental Jetset un gruppo di designer di Amsterdam formato nel 1997 da Marieke Stolk, Erwin Brinkers e Danny van den Dungen.

Specializzati nelle “printed matter” (materiali stampati) e nelle istallazioni site-specific, gli Experimental Jetset hanno lavorato per musei come lo Stedelijk Museum di Amsterdam, il Centre Pompidou, il Dutch Post Group e il Whitney Museum of American Art.

Nel vostro lavoro è più importante l’aspetto artistico o comunicativo?
«In realtà non facciamo una vera e propria distinzione tra il lato estetico e quello funzionale. Per noi la dimensione estetica dell’oggetto è parte integrante della sua funzionalità. Per spiegarci meglio: non siamo “funzionalisti”, almeno non nel senso più ristretto del termine. Secondo noi la funzione di un poster non è solo comunicare un singolo messaggio nel modo più efficace, per noi il manifesto funge anche da manifestazione estetica di una certa ideologia o come un’affermazione (o critica) rispetto ad alcuni codici culturali. Quindi il nostro concetto di “funzionalità” è da considerarsi in un ampio senso. A un’occhiata superficiale, può sembrare che i manifesti servano a veicolare messaggi semplici, ma il vero ruolo ricoperto da questi poster è molto più complesso e stratificato. Un muro coperto di manifesti non è solo una raccolta di messaggi scollegati, è anche la manifestazione di una comunità creata attraverso il linguaggio e l’estetica».
In termini di design, cosa distingue un buon libro?
«Secondo noi un oggetto di design (che sia un libro, un poster, o qualsiasi altra cosa) è “buono” nel momento in cui in qualche modo rende conto della sua condizione di oggetto di design. In qualche modo un oggetto di design deve essere riconosciuto come un oggetto che è stato progettato, costruito, fatto da esseri umani (e che quindi può essere cambiato da esseri umani). In genere gli oggetti che preferiamo rimandano alla loro stessa materialità, la loro dimensione fisica. Questo senso di materialità può essere molto sottile: una piega che corre attraverso un’immagine, una pagina ruotata, due forme sovrapposte nella stampa… Quanto basta per disturbare momentaneamente l’illusione e rivelare la base materiale».
Il design è un linguaggio politico?
«Beh, pensiamo che sia un linguaggio con una dimensione politica, o almeno un potenziale politico. Ci siamo sempri ispirati alla citazione di Marx e Engels: “Se gli esseri umani sono fatti dal loro ambiente, questo ambiente deve essere umano”. È più o meno la nostra idea: prendiamo forma da ciò che ci circonda e quindi a nostra volta dobbiamo dare forma a ciò che ci circonda. E il graphic design è un modo molto concreto, materiale di dare forma a ciò che ci circonda».
Accanto a Marx e Engels, sul vostro sito, c’è anche una citazione dei Devo. Come conciliate il socialismo con la cultura pop nella vostra visione estetica?
«Nel nostro modo di pensare, concetti politici (come marxismo, anarchismo, situazionismo, ecc.), movimenti di avanguardia (Dada, Pop Art, ecc.) e movimenti di sottocultura (come punk, new wave, ecc.) sono inseparabili. Da adolescenti abbiamo scoperto movimenti politici e artistici (come situazionismo e Dada) attraverso la musica (band, copertine di dischi, fanzine). È stato il lavoro di Jamie Reid per i Sex Pistols a farci conoscere Guy Debord, è stato il lavoro di Gee Vaucher a farci conoscere l’anarchismo. Quindi fin da giovanissimi abbiamo sentito rapporti strettissimi tra teorie politiche, sottoculture post-punk e graphic design. Il nostro lavoro è una scusa per esplorare questi rapporti appieno».
Qual è l’eredita lasciata dai Provos, il movimento di provocazione che a metà degli anni Sessanta agì proprio ad Amsterdam?
«Il movimento Provo ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della cultura olandese postbellica, il loro lascito si trova ovunque in Olanda: politica, arte, design e cultura in generale. Per noi in particolare, la lezione più importante che abbiamo imparato è l’idea che la città è fondamentalmente un ambiente a cui è possibile (e auspicabile) dar forma attraverso la stampa perché la città è considerata uno spazio grafico. Vendevano le riviste per strada, incollavano manifesti ai muri, eseguivano performance in spazi pubblici e distribuivano pamphlet a passanti ignari. Intanto, il luogo della stampa vero e proprio (illegale) di Provo doveva essere continuamente trasferito da un posto all’altro per evitare la confisca. Pensiamo che la storia del Provo riguardi soprattutto il rapporto simbolico tra la città e la stampa. Anzi, pensiamo addirittura che nel caso di Provo la città stessa diventi la stampa: hanno trasformato la città in un luogo dove le idee erano ampliate, moltiplicate e riprodotte. In altre parole, attraverso i Provo la città fu trasformata in un meccanismo per riprodurre idee: una stampa metaforica».

(traduzione di Federica Angelini)

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