Quei filosofi-pittori umanisti rivelati da Cacciari ed Ebgi

Appuntamento il 23 febbraio alle 17 alla Biblioteca Classense

Cacciari«Homo sum, humani nihil a me alienum puto». «Sono un uomo, e niente di ciò che è umano considero a me estraneo». Così afferma Cremète, uno dei personaggi dell’Heautontimorumenos (Il punitore di se stesso), una delle commedie più celebri del commediografo latino Terenzio. Ma homo, come fa intuire un suo grande lettore, l’“umanista” Leon Battista Alberti, nel suo capolavoro Momus, deriva da humus, “terra”, “suolo” e dunque, in fondo, l’uomo è nient’altro che polvere («[…] pulvis es et in pulverem reverteris», Genesi, 3, 19). Ma una polvere che, finché è in vita, deve guardare le cose, e prima di tutto se stesso, con gli occhi del pittore di cui parla Caronte, il traghettatore infernale, protagonista assoluto, col filosofo Gelasto, del quarto libro del Momus stesso: «Costui – scrive l’Alberti – guardando e considerando attentamente le forme, vide più da solo che non facciate tutti voi filosofi insieme, misurando ed indagando il cielo».

E cosa vede il pittore-filosofo? Che gli uomini, nella loro stoltezza, non contenti della forma che dio ha dato loro, si trasformano in buoi e asini, mentre altri, usciti dalla strada maestra, si mutano in mostri. Per poter tornare fra gli altri uomini, dunque, è necessario che si mascherino, creandosi dei nuovi volti con il fango. Queste “maschere”, afferma Caronte, si scioglieranno, solamente, sulla riva dell’Acheronte, cioè in punto di morte. In questo magistrale concentrato di antropologia umana, l’Alberti ci mette del suo, della sua “fantasia”, ma anche attinge alle tavole degli Antichi, in particolare a Luciano di Samosata e ai suoi “pre-illuministi” Dialoghi dei morti.

libro umanistiDi tutto questo e di molto altro si parlerà nell’incontro con Massimo Cacciari e Raphael Ebgi, in occasione della presentazione del bellissimo volume, da poco uscito, dal titolo Umanisti italiani. Pensiero e destino (a cura dello studioso di origini faentine Raphael Ebgi, Con un saggio di Massimo Cacciari), edito nella prestigiosa collana de “I millenni Einaudi” (2016). A cosa “servono” gli Umanisti? (per riprendere il titolo di un recente pamphlet di Maurizio Bettini, A che servono i Greci e i Romani?). Servono a vivere oggi. Così come agli umanisti “servivano” gli Antichi, per poter confrontare le risposte alle domande sulla vita di Plauto, Orazio, Lucrezio, Virgilio, Cicerone, con quelle, in parte nuove, che si presentavano in quel periodo tremendo, dal punto di vista degli avvenimenti storici, che sono stati i secoli XV e XVI.

Altro che periodo aureo, locus amoenus della storia del mondo, da rimpiangere per l’armonia raggiunta in quell’età. Da rimpiangere è soltanto la capacità di quegli ingegni, Alberti, Valla, Ficino, Pico, Machiavelli, di saper guardare in faccia la realtà, da filosofi-pittori, appunto, aiutati, in questo, dall’acribia dei loro studia humanitatis, dalla filologia, che nacque allora, che diventa, con loro, vera e propria filosofia, e dalla capacità di osare scelte arrischiate – come la grande cupola del Brunelleschi dimostra – «[…] struttura sì grande, erta sopra e cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e popoli toscani, fatta sanza alcuno aiuto di travamenti […]» – come la esalta, simpateticamente, ancora l’Alberti nella dedica a «Pippo architetto» del trattato in volgare De pictura. Perché dunque ri-leggere gli Umanisti – e con loro i classici Greci e Latini? Perché a volte sono più vivi, loro che sono morti, di tanti morti, politici e non, che si credono vivi.

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