Beaches Brew, il festival a misura d’uomo

Come Marina di Ravenna è riuscita a entrare in pianta stabile nel calendario emozionale dei fanatici di musica europei

Beaches Brew 2018 Hana Bi Foto Francesca Sara Cauli11

Uno scatto di Francesca Sara Cauli da Beaches Brew 2018

A pensarci bene l’idea del festival musicale come luogo ove rinfrancare lo spirito e ricaricare le batterie non è affatto scontata. Anzi, a dire il vero fino a vent’anni fa nessuno aveva mai sentito parlare di una cosa del genere. A quei tempi, diciamo fino alla fine degli anni novanta, un festival musicale era una cosa che in qualche modo richiamava i gloriosi anni di Woodstock e simili, quei festival in cui le persone gioivano nel tuffarsi in una pozza di fango e/o nel venir malmenate da una gang di motociclisti a cui era stata affidata la security.

Ma anche senza andare così tanto indietro nella memoria, i primi festival musicali a cui ho assistito erano eventi a cui la gente si recava sapendo perfettamente che sarebbe stata vessata in ogni modo possibile. Parcheggi a prezzi da affitto milanese, code interminabili all’ingresso, perquisizioni invasive, divieto di introdurre acqua, bagni chimici, sole a picco, calca insopportabile, prezzi disumani, ingorghi di traffico che manco un film di Fantozzi. Il fan di musica, soprattutto un certo tipo di fan di musica, è stato abituato a questo genere di angherie fin dalla più tenera età, ed è abituato in una certa misura a considerare il grande concerto/festival come un evento in cui la popstar concede con grande magnanimità ai suoi adepti di poter esistere nello stesso ettaro, a patto di pagare una cifra considerevole e venire costretti a continue umiliazioni – le quali si moltiplicavano nel caso in cui le popstar fossero due o cinque o dieci nello stesso giorno, come nel caso di un grande festival.

Beaches

Foto Francesca Cauli

È stato solo all’inizio degli anni duemila che questo ideale della disumanità applicata al festival musicale ha iniziato ad entrare in crisi. Gran parte del merito si deve ovviamente alla creazione di un’alternativa a questo modello economico turbocapitalista, un’alternativa che si è mostrata per la prima volta nella sua forma compiuta in un festival britannico chiamato All Tomorrow’s Parties. ATP si svolgeva in una località turistica attrezzata di bungalow, con una selezione di artisti molto particolare (spesso curata da un musicista/gruppo che sceglieva tutti gli altri), una tabella orari più affrontabile e tutta una serie di comfort secondari – possibilità di mangiare e bere decentemente, una pista da bowling, accesso a una piccola spiaggia e tutto questo genere di cose, che rendevano la musica un quasi-corollario all’esperienza.

È stata un’esperienza pionieristica che si è chiusa in maniera burrascosa, ma i risultati erano evidenti. La prima cosa che si faceva di ritorno da un ATP era organizzare il prossimo, programmare le ferie e prenotare il proprio alloggio. Non c’è voluto molto perché gli operatori della musica, esaltati anche dai commenti entusiasti dei musicisti, decidessero di ispirarsi a quel modello e tentare esperienze affini. È così che l’ATP è diventato la base su cui si poteva sviluppare un’idea di musica diversa, più legata all’esperienza, al benessere delle persone che si presentavano.

Oggi ci sono esperienze simili in diverse parti del mondo, compresa l’Italia: eventi in cui l’ascoltatore è invitato a partecipare non tanto per via dei nomi in cartellone, quanto per la promessa di un’esperienza di benessere che sembrava quasi di ostacolo alla musica, e oggi è diventata una necessità.

Viene un po’ da dare per scontato Beaches Brew, un festival che quest’anno arriva all’undicesima edizione e fa ormai parte in pianta stabile del calendario emozionale dei fanatici di musica europei. O almeno viene scontato farlo da ravennati: ci si mette in macchina a ora aperitivo, si ascolta il concerto di qualche artista e si saluta qualche amico usando la scusa dei concerti. C’è tutto quello che c’è in un festival di musica senza i lati negativi del festival di musica.

Abbiamo imparato ad assecondare il ritmo delle serate e farci trascinare dalla corrente emotiva – che è una corrente umana, di piccoli gesti, di gente che s’attarda al banco del bar anche se di là il gruppo grosso ha iniziato a suonare, ma c’è pure da prendersi cura di sé. E c’è la musica, ovvio. Artisti che aspettiamo con trepidazione, artisti che ci piace veder tornare di anno in anno, qualche nome sconosciuto che farà un concerto inaspettatamente clamoroso.

La top 5 dei nomi che attendo di più nell’edizione in arrivo: Senyawa (matti indonesiani noisefolk), Otim Alpha/Catu Diosis (groove ugandese), Kelman Duran (psichedelia dancey caraibica fritta impanata), Tropical Fuck Storm (veterani del festival) e ci mettiamo Ghost Woman che un po’ di dreampop non fa mai male.

Programma birre e strette di mano: serrato ma affrontabile. Dal 6 al 9 giugno, tra il Molo Dalmazia e l’HanaBi. Ci si vede lì.

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