Ricordo di Micha van Hoecke con un “canto per un poeta innamorato”

Omaggio all’Alighieri, il 20 luglio, al maestro danzatore e coreografo recentemente scomparso. Ne parla la compagna d’arte e di vita Miki Matsuse

Micha Van Hoecke Miki Matsuse

Micha Van Hoecke con Miki Matsuse in uno spettacolo al teatro Alighieri per il Ravenna Festival 2014 (foto Maurizio Montanari)

Il gran finale della danza al Ravenna Festival, il 20 luglio (alle 21) al Teatro Alighieri, non può che essere un “Canto per un poeta innamorato”, dedicato a Micha van Hoecke, il noto maestro russo- fiammingo scomparso l’anno scorso, presenza costante e figura di riferimento della manifestazione. Chiunque abbia assistito almeno una volta a un suo spettacolo, è rimasto certamente incantato dalle sue poetiche creazioni e ammirato per l’impegno nel diffondere il piacere della danza intesa come forma d’arte totale. Lo spettacolo è curato da Miki Matsuse, moglie e compagna d’arte, con il sostegno dei tanti che con lui hanno lavorato nei luoghi legati alla sua arte.

Miki, non dev’essere stato facile dare vita a questo spettacolo…
«È così… non ho mai pensato che potesse accadere. A volte scherzando gli dicevo di lasciarmi una lista musicale per il suo funerale. E non me l’ha mai lasciata ma, di tanto in tanto, mi buttava lì un brano che gli piaceva. Ne avevo accumulati così tanti da poter fare un festival altro che un funerale, come gli ripetevo sorridendo».

Il titolo è evocativo, parla di un poeta innamorato. Può spiegarlo meglio?
«La parola che più di tutte lo rappresenta è “poeta”, perché a lui piaceva raccontare i suoi movimenti e gesti con la poesia. Come coreografo, Micha è esattamente così: un poeta innamorato, perché entusiasta della danza, della musica, di Ravenna, del festival, del maestro Muti, di Cristina Mazzavillani… Non è solo un omaggio, dunque, ma un modo per far capire a tutti che persona fosse».

Lo spettacolo è anche un frammento del progetto “Tre baci per Micha”, oltre che un condensato di tante sue coreografie…
«Sì. “Tre baci per Micha” nasce simpaticamente dalla sua abitudine russa di salutare scambiando tra baci sulle guance. Si dice che esprima il desiderio di essere ricordati e così sarà anche in questo affresco di visioni, che include brani da La dernière danse, Le voyage, Guitare, Le maitre et la ville. L’intento è di raccontare la sua vita, dall’infanzia caratterizzata dalla cultura francese, poi italiana, russa e belga, fino alla canzone tzigana che sua madre cantava sempre a lui e alla sorella gemella Marina per addormentarli».

Chi ha chiamato per questa speciale serata?
«Anzitutto, due ospiti speciali come l’étoile Luciana Savignano, conosciuta al Teatro alla Scala di Milano e Manuel Paruccini, primo ballerino del Teatro dell’Opera di Roma con cui Micha ha lavorato molto e ora è direttore artistico di Teatro Lo Spazio, dove abbiamo fatto Pierino e il lupo. Sul palco saliranno i ballerini dell’ensemble di Micha e quelli del gruppo dei Danzactori, voluto da Cristina, con cui abbiamo realizzato diversi spettacoli. Ci tenevo ad avere qualcuno di Ravenna, città che ci ha ospitato per trent’anni».

Micha Van Hoecke

Ritratto di Micha van Hoecke (foto di Anna Agliardi)

“Galeotto” fu l’incontro con il maestro Riccardo Muti e poi con Cristina…
«Esattamente. Senza quell’incontro, non so se saremmo rimasti in Italia. Per Micha, Muti rappresentava il top del top della cultura italiana».

Micha e lei, invece, quando vi siete incontrati?
«La prima volta che l’ho visto è stata in occasione di uno stage a Tokyo, quarant’anni fa, avevo solo 16 anni. Lui è ritornato spesso con il Ballet du XX Siècle. Tre anni dopo mi ha proposto di entrare nella sua compagnia e, malgrado le perplessità dei miei genitori che vedevano l’Europa troppo lontana, ho accettato».

Cosa ricorda di quei primi anni insieme?
«Lavoravamo un po’ in Italia e un po’ in Belgio, mangiavamo tanti spaghetti al pomodoro, preparati da ballerine italiane della compagnia. I soldi non erano tanti… ma la pasta era così buona. Siamo cresciuti in fretta artisticamente anche perché negli anni Ottanta e Novanta, era un pullulare di festival e di spettacoli».

Com’era Micha sul lavoro?
«Molto esigente. Ancora ridiamo con le colleghe quando pensiamo che non ci faceva mai fare pause. Quando lui iniziava, non smetteva più, e noi come studenti a scuola dovevamo alzare la mano per potergli parlare… Da quando abbiamo avuto il nostro spazio, un capannone, iniziavamo le prove alle 11 di mattina e non finivamo mai prima di mezzanotte. Un grande impegno perché, come ripeteva spesso, nel nostro lavoro non si può improvvisare, e anche i più piccoli dettagli vanno curati».

Era dunque così severo anche con se stesso…
«Certo, ancor di più. Quando era in fase creativa, si alzava la mattina e ascoltava la musica, ed era la prima cosa che faceva al rientro a casa mentre io preparavo la cena. Quando era in dubbio, lavorava anche di notte, alla ricerca della sua verità. Le sue creazioni erano difficili e dolorose, come una madre che partorisce il figlio. Ma adorava le sfide e gli piaceva andare sino in fondo».

Fino all’ultimo non ha lasciato la danza?
«Negli ultimi giorni in ospedale ascoltava musica con la speranza di fare uno spettacolo su Petruska al Ravenna Festival, ma non ce l’ha fatta. La danza era la sua più grande passione, una ragione di vita, il suo respiro stesso. Un unico rimpianto è legato al Covid. Micha ha molto patito la pandemia, la chiusura dei teatri, si era “bloccato” e avvertiva una certa stanchezza da cui non si è più risollevato».

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