La Pulitzer che ha preso in prestito l’italiano: «La mia Ravenna bassa e azzurra…»

Jhumpa Lahiri a Scrittura Festival tra le ferite subìte da bambina per la sua diversità e il suo essere «centauro» dal punto di vista linguistico

Jhumpa Lahiri Tomba Di Dante

Jhumpa Lahiri alla tomba di Dante

Sabato 27 maggio, nella splendida cornice della sala dantesca della Biblioteca Classense, Ravenna ha accolto la scrittrice di origine indiana Jhumpa Lahiri, premio Pulitzer per la narrativa nel 1999 con la raccolta di racconti L’interprete dei malanni (Interpreter of Maladies).

Ospite di Scrittura Festival, Lahiri ha dialogato alla presenza di un pubblico nutrito con la giornalista del Post Ludovica Lugli. È stata l’occasione per presentare il suo ultimo libro Racconti romani (Guanda, 2022) ma anche per mostrare più da vicino il pensiero di una scrittrice poliedrica. Indiana, americana, italiana, tante etichette quante sono le lingue che parla e i posti in cui ha vissuto, nessuno dei quali, però, riesce a definirla completamente. «Io sono sempre appena fuori da ogni situazione identitaria», dice di sé, definendosi «una specie di centauro» dal punto di vista linguistico. In effetti, ciò che colpisce nell’immediato chi la ascolta è la sua padronanza della lingua italiana, che ha iniziato a studiare dopo il suo trasferimento in Italia nel 2011 e da cui deriva il suo primo libro in italiano, l’autobiografico In altre parole (2015), seguito dal romanzo Dove mi trovo (2019) e dal libro di poesie I quaderni di Nerina (2021).

Racconti romani è una raccolta che nasce «a singhiozzo», frutto di un lavoro di ricerca formale durato mesi, a volte anni. Una minuziosità necessaria per il genere del racconto che, come la poesia, «lavora sulla singola parola, sul ritmo, sulla costruzione della frase». Ad esso, Lahiri è da sempre legata sia come scrittrice che come lettrice, e a chi lo considera un genere “minore”, ricorda che «quella del racconto è una forma molto più esigente rispetto al romanzo perché un racconto deve assolutamente essere riuscito, non può fallire. O si riesce a ottenere la forma del racconto oppure si fallisce, non c’è una via di mezzo», anche se poi, ammette, «alla fine, forse, non realizzi mai fino in fondo il tuo racconto. Rimane sempre una proiezione, un desiderio. Ogni racconto per me è così, arriva fino a un certo punto».

Gurnah Lahiri Ravenna

Jhumpa Lahiri a Ravenna con il premio Nobel Gurnah

Accanto alla scrittura c’è Roma, città che Jhumpa Lahiri, a un certo punto della sua vita, ha scelto come casa per sé e per la sua famiglia. È un richiamo arrivato da lontano e passato in primo luogo attraverso le opere (ancora una volta, i racconti) di Alberto Moravia, da cui ha “rubato” il titolo della raccolta: «Io non conoscevo Roma, per niente, non avevo niente a che fare con Roma. Attraverso Moravia riesco a conoscere un po’ la città, le strade, la gente, le dinamiche. Rubo da Moravia questo titolo perché mi è venuto in mente. Mentre scrivevo questi racconti mi sono accorta di un’ambientazione romana. Detto questo, però, Roma compare soprattutto nel titolo di questo libro, ma nei racconti ci sono pochissimi riferimenti». La scrittrice, infatti, vuole superare l’immagine prevedibile e turistica della città «per suggerire che siamo tutti romani e che Roma è ogni città. Roma è uno stato d’animo, Roma è una città fin dall’inizio piena di stranieri, piena di incroci, piena di mitologia. Roma è una città piuttosto surreale, un luogo molto vero… però è una specie di sogno».

Quando parla, la voce di Jhumpa Lahiri è calda e pacata. Ogni parola è soppesata, le pause servono non tanto per cercare le parole, ma per cercare quelle più adatte a esprimere la complessità che si porta dentro, frutto di una diversità prima sofferta e poi rivendicata. Nata a Londra da genitori indiani, Nilanjana Sudeshna “Jhumpa” Lahiri è cresciuta negli Stati Uniti, dove però non si è mai sentita totalmente integrata, sia per la «bolla» che la famiglia ha costruito intorno a lei, sia per l’atteggiamento respingente, perfino razzista, delle altre persone, compresi i bambini: «Le ferite che ho io come persona arrivano da quel periodo, in cui mi sentivo così diversa, gli sguardi, i commenti di altri bambini che vanno verso quella figura che è un po’ diversa, ha un nome strano, un aspetto strano. Mi ha sempre colpito il problema di voler appartenere a un gruppo, come si svolge questa dinamica anche fra i bambini che si sentono minacciati dall’Altro». Solo in Italia la scrittrice ha ammesso di riuscire a elaborare maggiormente certe riflessioni sulle sue origini: Roma, «città cosmopolita ma anche provinciale», ricca di strati sociali, linguistici e culturali, è il posto ideale per una persona che si sente in viaggio costante fuori e dentro di sé.

Non stupisce allora che proprio il tema del viaggio con tutte le sue declinazioni (l’attraversamento del confine, l’esilio, la migrazione) sia particolarmente caro all’autrice, che ne fa il filo conduttore non solo della raccolta ma di tutta la sua produzione letteraria, guidata da una triade di “numi tutelari”: Ovidio con le Metamorfosi («ogni metamorfosi è un confine che va attraversato»), Primo Levi, il preferito del Novecento italiano, e naturalmente Dante Alighieri, che la scrittrice ha omaggiato domenica 28 maggio con una lettura del canto II del Purgatorio, scelto, tra le altre cose, perché vi vengono citati sia il Gange che il Tevere.

Dante Alighieri è l’unico nome proprio che compare in Racconti romani, ed è anche il titolo del brano che contiene uno dei tribuiti della scrittrice a Ravenna, visitata per la prima volta quattro anni fa. Lahiri la definisce una città «bassa e azzurra»: bassa perché conduce direttamente al mare, azzurra per il colore del cielo in una giornata di sole, del mare e della volta stellata dei mosaici di Galla Placidia. Questa “forestiera italiana” gioca con la lingua che ama per dare un nome alle cose senza porsi grossi limiti. Si avverte forte in lei l’amore per il nostro Paese e per il nostro idioma, che in fondo sono anche i suoi. La scrittrice riconosce la peculiarità della sua situazione: «L’italiano è una lingua in prestito, allo stesso tempo è una lingua con cui scrivo e penso e questo rende la situazione molto complessa perché so che non sono italiana e perciò non sono una scrittrice italiana, e invece scrivo in italiano». Eppure, l’aspetto positivo dell’essere dei «centauri» è proprio la possibilità di essere liberi dalla necessità di essere incasellati, di non avere più una categoria, «e questo – suggerisce Jhumpa Lahiri – forse è un bene».

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