«Testori è un po’ come Cechov e Beckett. Ha tagliato in due la mia carriera»

Ne parla il grande attore Sandro Lombardi, impegnato il 12 luglio al Museo Nazionale per il Ravenna Festival, in una (doppia) lettura omaggio al drammaturgo e poeta milanese, nel centenario della nascita

Sandro Lombardi Attore

L’attore Sandro Lombardi

Il Ravenna Festival non poteva che affidare a Sandro Lombardi, nel centenario della nascita di Giovanni Testori, la lettura – il 12 luglio, alle 19.30 e alle 21.30, al Chiostro del Museo Nazionale – di due testi del grande scrittore, giornalista, drammaturgo e poeta (ma anche critico d’arte e letterario, sceneggiatore, regista teatrale e pittore) milanese.
Tra i fondatori della compagnia Il Carrozzone, poi divenuta Magazzini Criminali, e in seguito fondatore della Compagnia Lombardi-Tiezzi, Sandro Lombardi è semplicemente uno dei più importanti attori italiani. Tra il 1994 ed il 2001 lavora come attore con Testori in Edipus, Cleopatràs, Due lai e L’Ambleto, spettacoli con cui vinse altrettanti Premi Ubu come miglior attore.

Lombardi, riferendosi al suo lavoro sull’Edipus, il primo testo di Testori che affrontò nel ’94, lei ha scritto di non essersi mai sentito così a suo agio con un testo, di aver provato la felicità del percorso interpretativo che Testori elargisce all’attore. Fu una folgorazione.
«In realtà l’attrazione nacque nel corso del lavoro, non mi sono innamorato immediatamente del testo. In quel momento avevo bisogno di lavorare un po’ da solo, venivo da anni di laboratori, per cui Giovanni Agosti mi suggerì quel testo, che non conoscevo. Conoscevo però molto bene Testori, ma solo il Testori narrativo, quello de Il ponte della Ghisolfa, La Gilda del Mac Mahon, Il fabbricone, e le sue prime prove drammaturgiche, come La Maria Brasca e L’Arialda, ma non conoscevo la Trilogia degli Scarozzanti (di cui fa parte Edipus, ndr). Dunque non fu un amore a prima vista, ma quel testo mi offriva proprio la dimensione della solitudine che cercavo, che combaciava con quello che il testo racconta, cioè la storia di un capocomico un po’ smandrappato che viene abbandonato da tutti e resta solo. Lo studio fu molto lungo, perché Edipus è scritto in una lingua non dialettale (anche se comunque parte dai dialetti della Brianza), ma tutta d’invenzione, una lingua che occorreva imparare, e mano a mano che mi addentravo in questa preparazione che precedette il lavoro di regia di Federico Tiezzi, sentivo come quel testo avesse degli aspetti che andavano al di là della sua riuscita letteraria, aspetti squisitamente teatrali di dialogo tra l’autore e l’attore. Testori è un po’ come Cechov, come Beckett, autori che “parlano” all’attore, nella loro scrittura ci sono già implicite le indicazioni per l’attore. Quindi mi sentivo piano piano portato a fare delle scoperte da un lato sul testo – quindi sul personaggio e su tutto quello che riguarda la poetica di Testori – e dall’altro su di me. Quello spettacolo taglia in due la mia vita d’attore, è lo snodo principale, in tutto quello che ho fatto dopo di quello, avevo con me alcune dimensioni in più rispetto a prima».

Giovanni Testori Scrittore Drammaturgo

Lo scrittore e drammaturgo Giovanni Testori

A Ravenna lei di Testori leggerà Mater Strangosciàs, dai Tre lai, e Gli angeli dello sterminio, perché questa scelta?
«È stata concordata con Angelo Nicastro del Festival, che aveva il desiderio che facessi Gli angeli dello sterminio e uno dei Tre lai. Uno, semplicemente perché, avendo una sola giornata, tutto non ci stava. E poi ho ormai un’età in cui non ho più la resistenza fisica di una volta».

Qual è per lei il Testori “necessario” in questo memento storico?
«I Tre lai. E infatti nel prossimo futuro ho dei progetti legati proprio a quel testo. Uno è questo ravennate, poi in autunno farò un lavoro su Erodiàs e Mater Strangosciàs con Anna Della Rosa, che non è un lavoro di regia ma di consegna di interpretazione attoriale. È un’attrice che ho visto interpretare Cleopatràs e mi ha molto colpito, e siccome io oggi vorrei tanto fare Tre lai ma per mille motivi la cosa non è possibile, ho provato a lavorarci con un’attrice alla quale consegnare il mio sapere, le mie scoperte su quei testi. Sono molto legato ai Tre lai, perché la preparazione è avvenuta in due momenti diversi e opposti della mia vita. Quando ho studiato Cleopatràs attraversavo un momento felice della mia vita, mentre preparavo Erodiàs e Mater Strangosciàs attraversavo invece un periodo particolarmente doloroso. Sono coincidenze che ti segnano, che quindi ti portano a preferire un testo invece che un altro per motivi assolutamente personali».

Attualmente, o nel recente passato, ci sono autori in cui si può ritrovare quell’urgenza testoriana di dissacrare, non per distruggere, ma per risacralizzare, per riaffermare l’esistenza del sacro?
«A livello internazionale mi viene in mente Bernard-Marie Koltès, drammaturgo francese scomparso giovanissimo nel 1989. Nell’alveo della grande letteratura drammaturgica francese è stato una sorta di nuovo Jean Genet, con contenuti dissacranti legati alla disperazione e a una sessualità diversa; dal punto di vista stilistico la sua era una lingua estremamente alta, che faceva riferimento ai grandi tragici del ‘600 francese, Racine, Corneille e così via. In Italia potrei citare Fabrizio Sinisi, un giovane drammaturgo classe 1987 che sa affrontare il tema del dolore in maniera dissacratoria, che scrive in versi molto bene».

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