Artista, intellettuale, scrittore: alla Classense la “City” di Antonio Marchetti

Una bella ed elegante mostra personale (e retrospettiva, vista la sua scomparsa nel 2013), aperta a Ravenna fino al 30 settembre

Marchetti

“Fabbrica” (2006)

Una mostra a Ravenna con opere selezionate della sua ultima produzione e la presentazione di un voluminoso catalogo che ne illustra l’intero tragitto artistico e intellettuale: sono questi i due eventi che ricordano Antonio Marchetti (1952-2013) – artista, intellettuale, scrittore, docente, editore – e che cercano di ricomporre un tragitto di pensiero e di creatività complesso, geniale, esplosivo, curioso. Per chi non l’ha conosciuto sarà difficile comprendere a pieno la profondità e la coerenza intellettuale di Marchetti osservando la bella ed elegante mostra dal titolo City alla Manica Lunga della Classense.

Sarà altrettanto sfuggente la capacità di scavo, di intuizioni e folgoranti risultati che hanno nutrito la sua prolifica attività: è una manchevole circoscrizione anche per chi l’ha conosciuto con la sola eccezione di chi gli è stato prossimo e per lunghi anni, come alcuni amici e come Virginia Cardi, storica dell’arte e curatrice della mostra ravennate assieme a Umberto Palestini e Alberto Giorgio Cassani.

Antonio Marchetti

Ritratto di Antonio Marchetti

Per cui conviene prendere un sentiero perimetrale e di soglia, che lui avrebbe amato, per proiettare almeno l’ombra del percorso. A Pescara dove nasce, Antonio si forma presso la facoltà di Architettura avvicinandosi al pensiero di un maestro molto amato, Aldo Rossi. Sono gli anni ’70, contrassegnati da una grande passione politica e intellettuale, durante i quali impara quanto disegno, progetto e forma siano tre aspetti intrinsecamente collegati. Al tempo, la città abruzzese è anche meta non periferica di esperienze artistiche significative: numerose sono le gallerie storiche – De Domizio, Pieroni, Cesare Manzo – e gli artisti che qui lavorano, passano, lasciano il segno fra cui Beuys, Fabro, Kounellis, Kossuth, De Dominicis.

In questo contesto di frequentazioni, Antonio fa propria quella rosa di complementi che rendono l’arte tale per molti di quella generazione: la sincerità del lavoro, l’assenza di paura rispetto alla possibile inattualità del posizionamento, l’esercizio e l’onestà intellettuale, la diffidenza verso il mercato e i meccanismi sociali, il bisogno di confronto costante. Da qui a che la riflessione sia indistinguibile dalla vita e dalla rete arteriosa che alimenta l’arte, il passo è breve. A sviluppare una poetica incapace per tutta la vita di scendere a patti contribuiscono anni di studio intenso – Bataille, Artaud, Foucault, Agamben, Barthes, Cioran, Kafka solo per citare alcuni degli autori più amati – che dà le basi all’analisi del mondo e dell’arte.

Negli anni ’80 l’artista inizia la propria carriera che vede la partecipazione a importanti collettive in Italia, curate fra gli altri da Barilli, Crispolti, di Pietrantonio, Bonito Oliva. Le personali si moltiplicano affidandosi alla cura o alla presentazione di illustri autori come Alberto Boatto, col quale si crea un lungo rapporto di amicizia e collaborazione. L’affilatezza e determinazione nelle scelte di Marchetti – «Bisogna scegliere e guardare le sole cose che contano»– e l’indomità incapacità di sottomettersi alle mode del presente – «Come si chiama questo Führer che decide cos’è contemporaneo?» – sono insieme l’unicità e il recinto del suo destino.

La produzione artistica si snoda per nuclei tematici che si sviluppano nel tempo come Variazioni Goldberg. Le case ad esempio, presenti fin dagli esordi, ricompaiono in accezione diversa agli inizi degli anni ’90, riacquistano vigore in una nuova e differente interpretazione nei decenni che aprono il nuovo millennio. Non sono semplici studi formali – mai in Marchetti la forma è autoreferenziale o si separa dal contenuto – ma case e dimore di oggetti inconsueti, luoghi di rivelazione dell’inatteso, baricentri di un nomade senso di appartenenza. Possono essere posti di blocco da cui partire per altre esplorazioni oppure ambienti di ossessione, edifici carichi di testimonianza e orrore che perimetrano i massacri dell’Olocausto.

Una seconda serie costante nel tempo, anche questa variata come una composizione, è quella dedicata ai Single. Apparsa a metà degli anni ’80 prima in dipinti e poi in oggetti tridimensionali in terracotta o metallo, la serie trascende l’apparenza di caffettiere per identificarsi in elementi fuori norma, eccedenti rispetto al reale: aspetti qualitativi che riflettono sugli oggetti quelli propri dell’artista e del suo modo ironico di affrontare il mondo. L’insistente, irrinunciabile ricerca di eleganza che attraversa questa e tutta la produzione dell’artista anche negli scritti non è vuota ma sostanziale: è la stessa caratteristica interiore/esteriore che egli vede anche in Artaud alla fine della vita, per quanto segnato nel corpo dalla violenza degli elettroshock.

Al grande drammaturgo è dedicato anche il secondo numero della rivista Stilo che Marchetti progetta e costruisce grazie ad una rete di relazioni intellettuali intrattenute fra Italia e Francia. Giocata su temi monografici, Stilo esce fra il 1982 e il 1988 ed è tuttora considerata un caposaldo italiano in grado di restituire i nodi della cultura postmoderna di quel decennio. Impossibile approfondire le altre iniziative editoriali, i libri e i saggi scritti da Marchetti, gli allestimenti fra cui quelli bellissimi e ancora bellissimi della Camera verde. Presentata per la prima volta nel 1997 per Ravenna Festival sorgeva come omaggio a Truffaut e alla sua fuorviante interpretazione di un colore, il verde, che appartiene tradizionalmente alla giovinezza. L’allestimento accoglie piccoli altari dei maestri del pensiero – fra cui Nabokov, Bataille, Savinio, Roussel ma anche uno sconosciuto come Harutiun Kasangian – in cui vengono disposti oggetti, fotografie, testi che danno spessore alla memoria ricreando quella domesticità di rapporti esistente fra chi è stato consumato dalla passione per le loro opere e pensiero, e li sente sempre, eternamente, vivi.

Marchetti, “Naufragio” (1992)

“Naufragio” (1992)

Questa capacità di confrontarsi continuamente col passato e con un presente che deve presentare sulla carne la cicatrice della classicità, attraversa il lavoro di una vita ed è evidente anche nei lavori dell’ultimo decennio. Esposti a Ravenna, i dipinti, gli assemblaggi e le sculture esplicitano rimandi alle progettazioni di Aldo Rossi, Gerrit Rietveld, Theo van Doesburg, Louis I. Kahn, Adolf Loos, ma anche ai lavori di Depero, Sironi, De Chirico, Magritte e Klee.
Il rapporto con i classici non si esaurisce con la citazione ma si riflette sulla dimora interiore e creativa di Marchetti: qui, l’eterna ironia si misura con l’onnipotenza dell’infanzia, le città felici risultano marezzate dai colori dell’imminente catastrofe, i colori vivaci si spengono nel notturno malinconico di una corsia di ospedale. A salvarci – non per sempre direbbe Antonio – da questo senso di perdita individuale e collettiva rimane l’orizzonte umanista – il dialogo con gli angeli del passato – che garantisce una precaria ma calda dimora e restituisce un profondo, invulnerabile senso di appartenenza.

“City – personale di Antonio Marchetti ” – Ravenna, Biblioteca Classense, Manica Lunga; fino al 30 settembre; orari: Mar-Sab 15-19 – ingresso libero

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