Marco Baliani, il maestro del teatro di narrazione

Fino al 26 novembre all’Alighieri il noto drammaturgo (ravennate d’adozione) con Kohlhaas, giunto alla 1.136esima replica

001 30 07 2021 Luca Deravignone 09795

(foto Luca Deravignone)

Da poco divenuto cittadino ravennate, il piemontese Marco Baliani – attore, drammaturgo, regista teatrale – è con buona evidenza una delle figure più importanti della scena teatrale nazionale degli ultimi trent’anni, tanto che La stagione dei teatri ne propone ben tre spettacoli: il seminale Kohlhaas, del 1990, in scena all’Alighieri da giovedì 23 a domenica 26 novembre (ore 21, domenica ore 15.30, incontro col pubblico sabato 25 alle 18 alla sala Corelli); Una notte sbagliata (2019), al Rasi il 1 marzo, e Frollo (1995), inserito il 3 marzo al Teatro Socjale di Piangipane nella stagione per ragazzi. Di questa sorta di omaggio parliamo direttamente con il protagonista.

Baliani, tre spettacoli in stagione a Ravenna, approfondiamoli insieme. Con Kohlhaas ha dato vita a quello che fu chiamato teatro di narrazione. Come si arrivò nel ’90 a un palcoscenico su cui restava solo un corpo e una voce?

«Già dal 1984 andavo in giro solo con una sedia a fare spettacoli per bambini e ragazzi, a cui raccontavo storie, fiabe, a volte prese dalla tradizione. Ma poi iniziai a raccontarne di mie, a crearne di nuove, sempre con ambientazioni fantastiche e soprattutto per ragazzi; per cui avevo già maturato questa modalità, che non chiamerei né metodo né tecnica, lo facevo perché avevo visto che questo tipo di narrazione funzionava, soprattutto in situazioni di bambini con difficoltà psichiche o problemi, ad esempio la provenienza da famiglie disagiate. La mia idea era sempre quella di un teatro da usare socialmente, che è stato il mio pallino fin dagli anni ’70, dunque un teatro che non fosse solo da vedere, estetico, ma che servisse. Poi, nel 1989, Remo Rostagno, con cui avevo lavorato parecchie volte, mi disse di leggere Michael Kohlhaas di Heinrich von Kleist, un libro che poteva diventare un bellissimo racconto; lo lessi e mi piacque subito, non so come mai, sentivo che c’era qualcosa. Poi l’ho scoperto dopo, è il tema della giustizia. E così iniziai a raccontarlo e per due anni Kohlhaas lo feci per le scuole, con più di 200 repliche, finché un giorno Monica Gattini del Teatro Verdi di Milano lo vide e propose di farlo in serale. Ebbe molto successo, tanto che due critici come Renato Palazzi e Ugo Ronfani si chiesero “come lo chiamiamo, questo teatro che sarebbe piaciuto a Brecht?, lo chiamiamo teatro di narrazione”. La definizione nacque così e tutto mi aspettavo tranne che diventasse un genere. La mia idea era di spostare l’orecchio al posto dell’occhio, rispetto a una società in cui l’occhio era invasivo, l’occhio è tutto, punta al desiderio del consumo; era una lotta anche etico-politica, che lo spettatore non avesse quasi più nulla da vedere se non il mio corpo su una sedia e tutto il resto da immaginare solo ascoltando. Lo spettacolo poi è diventato un po’ un cult – a Ravenna sarà la 1.136ª replica – ormai lo vengono a vedere cinquantenni che lo hanno visto trent’anni prima e che ora portano i figli. Finché resisto…»

Ma secondo lei i sentimenti e le reazioni del pubblico nei confronti di Kohlhaas sono cambiati negli anni?

«Sono cambiati perché è cambiata la società, nel senso che nell’89 o 90 c’era ancora un senso di giustizia e ingiustizia, adesso è come se si fosse tutto un po’ addormentato; ho la sensazione che ora ci sia una sorta di grande sonno in cui anche il tema dell’ingiustizia non muove più tanto gli animi, ed è terribile, ci dice dell’indifferenza che regna. Tuttavia chi viene a vederlo sente fremere delle emozioni, ma dipende molto anche dall’età degli spettatori. I giovani, con cui mi confronto spesso dopo gli spettacoli, sono molto appassionati, chiedono dettagli su questa storia del ‘500, se sia accaduta veramente, emergono riflessioni sul cosa fare di fronte a un’ingiustizia, questa dell’ingiustizia devo dire che è una questione che colpisce di più le giovani generazioni, i 19-20enni li trovo molto più attivi, combattivi, è stata una sorpresa».

Parlando di ingiustizia, anche Una notte sbagliata è legato in qualche modo a Kohlhaas.

«Il tema dell’ingiustizia è un po’ un maelstrom in cui mi trovo sempre a navigare, nel senso che tutto arriva dagli anni ’70, che per me sono ancora un groppo in gola, sono gli anni in cui si sarebbe dovuto fare ma non si è fatto, e quando si è fatto si è fatto forse male, con troppa violenza. Tutto è generato da quel buco nero, ma Una notte sbagliata nasce anche dall’aver conosciuto quelli del Paolo Pini di Milano, l’ex ospedale psichiatrico, persone squisite che fanno il festival Da vicino nessuno è normale. Stando lì a lavorare con un altro spettacolo ho conosciuto molto i degenti, quelli che una volta chiamavamo i matti e che invece lì si occupano del ristorante e sono molto attivi. Parlando con i loro medici ho imparato tante cose e cominciai a pensare al possibile protagonista di una storia – e ce ne son state tante nel paese – in cui i poliziotti finiscono per ammazzare qualcuno. Il mio protagonista, Tano, ha problemi molto acuti, tra depressione ed euforie, prende medicinali tutti i giorni. Ma ai poliziotti non insegnano come comportarsi coi diversi, è un meccanismo vecchio come il mondo cui assistiamo ogni giorno, ne sono successe tante di vicende così, non ultima quella forse più nota di Stefano Cucchi. Tuttavia non volevo fare teatro civile che parlasse di una persona in particolare, bensì, più in generale, del capro espiatorio, perché i diversi sono sempre quelli che subiscono, la diversità genera immediatamente qualcosa che scatena violenza sui loro corpi, questo è il tema. Però lo spettacolo è molto diverso da Kohlhaas, perché non volevo più essere io il narratore che sapeva tutta la storia, ma essere in parte un personaggio, entrando di volta in volta nella testa dei poliziotti, del dottore, del cane di Tano, entrare e uscire con un linguaggio interpretativo molto forte ma con vari spiazzamenti, tanto che la narrazione si perde proprio, è un insieme di quadri dove via via si arriva alla catastrofe finale. Nello spettacolo c’è un gran lavoro sonoro, molto intenso, fatto da mio figlio Mirto, che abita e lavora a Ravenna da tanti anni, e immagini molto forti proiettate, disegni che ho fatto io».

Tra l’altro in quell’occasione, dopo lo spettacolo ci sarà un incontro cui parteciperà anche Ilaria Cucchi.

«Non vedo l’ora, altre volte l’incontro a fine spettacolo l’ho fatto insieme a dei magistrati, sono momenti molto belli».

Infine c’è Frollo, che è nella sezione di teatro ragazzi ma che ha una trama interessantissima, metafora della società dei consumi.

«Frollo appartiene all’origine del teatro di narrazione, fa parte di quel tipo di drammaturgia in cui il corpo narrante è tutto, ancor più che Kohlhaas, e infatti al termine di Frollo di solito sono esausto, l’impegno corporeo è assurdo, il corpo si mimetizza, diventa tutti i personaggi».

Da qualche tempo si è trasferito a Ravenna, cosa l’ha portata qui, oltre naturalmente alla presenza di suo figlio e delle sue nipotine?

«A me e Maria Maglietta, la mia compagna, nonché regista e drammaturga dei miei spettacoli, piaceva l’idea che ci fosse il mare, che per noi è una cosa meravigliosa, ma poi la città è bellissima. Era bella anche Parma, dove stavamo prima, ma trovo che Ravenna sia molto più misteriosa, più magica, non solo per i mosaici e i monumenti, ma anche come urbanistica. È labirintica, mi ricorda sempre che lì c’è stato un passaggio epocale da un impero a un altro, una città che è stata al centro del mondo per un lungo periodo storico. Quindi camminare lì, nelle piazze, nei luoghi danteschi, mi piace molto».

 

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