Una “folla” in mosaico di Luca Barberini nella nuova metropolitana di Taipei

L’artista ravennate coinvolto in un concorso in Taiwan e in attesa di essere ospitato anche in California e Australia. «C’è una rinnovata attenzione per il mosaico, una nuova apertura verso la manualità»

Luca Barberini RitrattoLuca Barberini, mosaicista ravennate classe ‘81, fondatore, assieme alla moglie Arianna Gallo, di Koko Mosaico, mi accoglie direttamente nel suo studio: non ha tempo da perdere. Seduto davanti a un grande pannello pieno di figure (in apparenza un’altra delle sue bellissime folle, come quella che potete vedere al Mar in esibizione permanente), risponde alle mie domande mentre intaglia e inserisce i suoi pezzi di smalto e pasta vitrea sulla malta fresca. Sta lavorando alla Folla n.15 Convergence, la sua parte di un trittico di arte pubblica che andrà a finire quasi dall’altra parte del mondo, a Taiwan, in una fermata della nuova metropolitana di Taipei.

Questo è il tuo primo lavoro di arte pubblica. Raccontami come è successo.
«Sì, è vero, lo è. È successo grazie a un amico, l’artista taiwanese Huang Jing-Jhong, che per comodità chiameremo Roger. Otto anni fa venne qui, ospite da noi, per imparare la tecnica del mosaico. Allora era un designer, lavorava per una famosa ditta di biciclette a Taiwan, la Giant, e gli era venuto il trip di fare ritratti artistici dei giocatori Nba, in stile fumetto di supereroi anni Sessanta. Ha avuto un grande successo, e così ha aperto il suo studio a Kaohsiung, dove fa bellissimi mosaici con bambù e carbone. E dove mi ha invitato per fare una mostra. Un posto bellissimo, Kaohsiung, ex città portuale simile a Ravenna, ma piena di gallerie e vita artistica. Siamo rimasti in buoni rapporti e così è stato lui a propormi di partecipare, assieme a Iyo Kacaw, un altro collega, a un concorso nazionale taiwanese per decorare una fermata della nuova metropolitana di Taipei».

Luca Barberini Taiwan

Luca Barberini al lavoro sull’opera che finirà a Taipei

Sarai probabilmente il primo ravennate a esporre un’opera pubblica a Taipei. Che cosa rappresenta?
«Chissà, potrebbe anche essere! Abbiamo deciso di realizzare un’opera che riprendesse, in chiave contemporanea, i temi e le simbologie tradizionali degli indigeni taiwanesi di Sanxia. Il centro della riflessione è l’acqua. Così, per la mia parte d’opera, ho deciso di fare una delle mie folle, ma in versione fiume, fiume in piena. È una rappresentazione in tre pannelli del genere umano; un buon auspicio, perché è un fiume ricco, pieno d’acqua, quindi portatore di prosperità. E, allo stesso tempo, è un simbolo della storia degli indigeni di Sanxia e del loro processo di inurbamento: questo popolo ha seguito il corso di tre fiumi per arrivare infine a stabilirsi nelle città».

Mosaico e metropolitane vanno d’accordo.
«Sì. Ultimamente il mosaico è stato impiegato spesso per le metropolitane e ha assunto un valore non da poco. Penso alla metropolitana di Napoli, che dicono sia la più bella del mondo, a quella di Mosca, a New York. Ricordi la mostra di Chuck Close al Mar, nel 2019? Alcune di quelle erano opere fatte per la metropolitana di New York. Tuttavia c’è anche da dire che il mio è un mosaico molto particolare. E a chi non è molto abituato alla tecnica, come i taiwanesi, potrebbe sembrare, visto da lontano o distrattamente, anche qualcosa di diverso: un graffito, un disegno».

Spesso l’arte pubblica può diventare retorica, banale… Hai corso questo rischio?
«È vero… Sinceramente non ci ho pensato. Forse perché è un’opera che nasce già nelle mie corde. Mi è stata chiesta una folla, che è esattamente quello che mi piace fare. L’unica idea che mi è stata suggerita è stata quella di usare un fiume come sfondo. Ma hai ragione: spesso gli artisti si devono adeguare al contesto, alla committenza… Per fortuna, non è stato il caso di questo lavoro».

Vedo che sei quasi a metà dell’opera. Quando sarà pronta?
«Devo spedire i tre pannelli entro maggio. E la metropolitana dovrebbe inaugurare quest’estate».

Come ti sei trovato a Taiwan?
«Taiwan è fantastica. Quando ci andai per la prima volta mi aspettavo un Giappone più povero, più arretrato, ma sbagliavo di grosso. È una cultura frizzante, giovane, moderna. Si sente il fermento. Il Giappone è un po’ come l’Italia, un paese di vecchi. Taiwan no. Taipei, la capitale, è bellissima, si sente ancora tanto della tradizione. Pensa che l’ultimo imperatore cinese andò in esilio proprio a Taipei. E poi è un’isola dalla storia ricca e stratificata. È stata portoghese, sotto il nome di Formosa; poi inglese, poi giapponese. È piena di influenze straniere. Non siamo troppo diversi, italiani e taiwanesi. Sono più aperti, e come noi più abituati al contatto»

Oltre questa tappa taiwanese cosa bolle in pentola?
«A fine luglio andrò in California. Per tre mesi sarò ospite in una galleria a Santa Barbara: l’Helena Mason Art Gallery. È una galleria simpatica, vicina all’oceano, che si occupa di artisti locali. Mentre esporrò un nuovo condominio, dedicato a Santa Barbara, Arianna, mia moglie, terrà corsi di mosaico. E poi l’Australia…».

Raccontami.
«In Australia e Nuova Zelanda c’è un’associazione di mosaicisti molto bravi e organizzati, si chiama Maanz (Mosaic Association Australia e New Zealand). Ogni anno tengono una grande conferenza, e quest’anno mi hanno invitato a Geelong, vicino a Victoria, come keynote speaker. Ci sarà anche una mia mostra personale, organizzata all’interno del National Wool Museum – gli australiani sono molto fieri della loro lana – e qualche master class in giro per il continente, fra Melbourne, Adelaide, Sidney… È la mia prima volta in Australia. Non vedo l’ora».

È tutto merito tuo o c’è una nuova attenzione internazionale rispetto al mosaico?
«Bella domanda. Forse sì, c’è una nuova attenzione. Ci sono tantissimi artisti contemporanei che stanno cominciando a sperimentare sempre di più col mosaico o con tecniche analoghe. Forse c’è una nuova apertura verso la manualità, verso il saper fare. Ritorno secondo me necessario: perché, forse, l’arte concettuale, per quanto bella e rivoluzionaria, ha fatto il suo tempo. Penso a un grande artista ghanese, El Anatsui, che lavora con materiali di riciclo, rifiuti, tappi, bottiglie, e realizza dei bellissimi ed enormi tappeti, che sono in fondo dei veri mosaici. Oggi è esposto al Tate Modern di Londra».

Un bel nome per la prossima Biennale di Ravenna…
«Beh, magari, sarebbe bellissimo! Lui è un artista di fama internazionale. Ma anche una bella mostra di Invader a Ravenna – lui che ha storpiato il mosaico, che l’ha fatto diventare street art – mi piacerebbe moltissimo. Oppure, sempre pensando in grande, Damien Hirst, uno dei più grandi artisti contemporanei viventi. Ha una forte inclinazione al mosaico, che a volte sfocia quasi nel puntinismo. Penso ai suoi bellissimi mandala, fatti con ali di farfalla secche: sono dei veri mosaici. Chissà!».

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