Il ritorno di Eraldo Baldini alla narrativa:«Con l’età sono diventato più selettivo»

A cinque anni dall’ultimo romanzo, lo scrittore ravennate è in libreria con Le lunghe ombre fredde, una storia ambientata nel Dopoguerra che intreccia tragedia e memoria nelle campagne romagnole

Eraldo Baldini

Dopo un’attesa di quasi cinque anni, Eraldo Baldini, il maestro del gotico rurale, è tornato alla narrativa con Le lunghe
ombre fredde, romanzo storico pubblicato per i tipi di Rizzoli.
Ambientato in Romagna nell’immediato Dopoguerra, il nuovo lavoro di Baldini affronta la difficile fase della ricostruzione
a partire da due protagonisti, Fausto e Brigit, che si conosco a Mauthausen durante la liberazione del campo da parte degli americani. Una coppia ferita e cementata dai dolori della guerra, che nasconde però segreti difficili da confessare.

Sono passati cinque anni dal tuo ultimo romanzo: non è più così frequente che un autore si prenda i tempi fisiologici per scrivere i suoi libri. Quali sono le ragioni di questa attesa?
«Con l’età è normale che i ritmi rallentino. E diciamo anche che sono diventato più selettivo: porto avanti solo l’idea
che vale davvero la pena di perseguire. Ci sono ancora momenti in cui mi vengono molte idee. Nascono all’improvviso, ma per formarsi hanno bisogno di tempi più lunghi».

Anche quest’idea c’era da molto tempo?
«Sì, e ho aspettato il momento giusto per realizzarla. Ci sono momenti in cui si sente voglia e bisogno di scrivere. Arrivano con meno frequenza rispetto a quando ero più giovane, e quando arrivano cerco di assecondarli. L’idea riguardava delle sensazioni che ho vissuto per motivi anagrafici. Essendo nato nel ‘52, quand’ero bambino sentivo in casa molti discorsi sulla guerra. La memoria della guerra era ancora fresca e dolorosa. Ho conosciuto persone che l’avevano fatta, che erano state in prigionia. Quel tipo di narrazioni ed emozioni ha accompagnato la mia infanzia e la mia giovinezza. Ma non parlo solo di racconti. La guerra era ancora lì, anche a livello materiale. Pensa che a casa mia c’erano state le cucine e i magazzini dei canadesi, i soldati che avevano liberato la zona di Russi. Finché sono vissuto dai miei, i polli hanno mangiato dagli elmetti dei canadesi, che erano più
adatti di quelli tedeschi perché erano bassi come scodelle. Le cancellate erano fatte con la lamiera che gli Alleati usavano per costruire piste d’atterraggio di fortuna. O ancora, molti degli strumenti che avevamo in casa, vanghe o attrezzature per orto, erano marchiate Canadian Army. Cose lasciate dalla guerra che trovavano nuova vita grazie all’inventiva contadina».

Dunque, il Dopoguerra…
«La storia parte da due giovani, un ragazzo e una ragazza, che si conoscono nel campo di Mauthausen quando questo viene liberato dagli americani. Ognuno di loro porta un fardello e decidono di rimanere assieme. Cercano con tutte le forze di approdare a una vita normale e vengono a vivere qui, nel nostro territorio, nella zona delle paludi. Un posto molto isolato, perché la memoria del campo provoca in loro un desiderio di quiete. Si fanno una famiglia, lentamente si integrano in questa comunità, a sua volta molto marginale. Ma non è un’integrazione facile. Lei è tedesca. E anche i cinque figli sono biondissimi, parlano spesso tedesco fra loro…».

Non molto benvoluti, immagino.
«Nemmeno osteggiati però. Il forestiero, in quegli anni lì, non era abituale come ora. E lei, dopo tutto, è tedesca… Si
fanno un vita, ma lei racconta pochissimo di se stessa. Nemmeno suo marito conosce il suo passato. Che cela un grosso
e importante segreto. Il libro parla anche di questo: del peso del passato, di come farci i conti; di come il vissuto dei padri
ricada spesso sui figli».

Come vuole la tragedia classica.
«Sì. Questo libro ha qualche caratteristica della tragedia classica, a ben vedere. È un discorso sulla guerra, su come è passata nel nostro territorio. E su come in realtà non sia mai finita. Conti in sospeso e frizioni sono andati avanti per decenni. Questo passato non passa né facilmente, né in fretta».

Hai voluto forse parlare dell’Italia? Sono anni, quelli del Dopoguerra, in cui si è fatto di tutto per dimenticare le macerie. Forse l’abbiamo fatto troppo in fretta.
«È così. Il libro si svolge nel periodo della ricostruzione e del boom economico, in cui si approda a nuovi stili di vita. Ma le cicatrici rimangono, e per alcune persone sono talmente profonde che è difficile raccontarle o condividerle. Ormai lo sappiamo bene, il racconto dei campi è diventato quasi un Leitmotiv: ci sono memorie che si possono raccontare, ma solo chi le ha vissute le può veramente capire».

Il paradosso di Primo Levi, che aveva paura di non essere creduto.
«Suo e di tanti altri. Ne ho conosciuti di reduci dei campi. Ho conosciuto Shlomo Venezia, lo scrittore di Sonderkommando Auschwitz. Ho fatto lunghe chiacchierate con lui. Shlomo è riuscito a parlare della sua esperienza soltanto da vecchio. La sua famiglia non ha saputo niente finché non gliel’ha detto lui».

A proposito di memorie e macerie: sei sempre stato un commentatore acuto e presente della vita di provincia. Il caso del momento sono le Torri Hamon, che rappresentano la memoria industriale della città. Che idea ti sei fatto sulla loro demolizione?
«Mio nonno diceva: “e’ bsognerebb fël, s’us po’ fè”, ovvero, bisognerebbe farlo, se si può fare. È chiaro: sarebbe bello che fossero conservate. Quando si andava al mare – e dalla campagna noi ci si andava poche volte – l’arrivo era annunciato dalla Sarom. Fanno parte della mia memoria affettiva. Ma non conosco i dettagli della questione, quanto sia oneroso o difficile salvarle, e non voglio dire cose inesatte, che vadano al di là di quella che è la mia impressione affettiva. Mi piacerebbe che almeno una possa salvarsi. Ma us fa, s’us po fè (l’intervista è precedente l’avvio dei lavori per la demolizione anche della seconda torre, ndr)».

In questi giorni si è discusso molto attorno alle copie vendute dei libri finalisti allo Strega. Molti commentatori sono caduti dal pero, evidenziando i numeri molto bassi delle vendite, a volte solo poche centinaia. È sempre stato così, o c’è stato un peggioramento?
«Dal mio osservatorio, molto limitato, posso dire che c’è stato un peggioramento. Rispetto a trent’anni fa si vende meno. Ci sono, da parte degli editori, delle strategie poco chiare e poco efficaci. Sapendo che su ogni libro c’è solo un piccolo margine di guadagno, l’escamotage è quello di pubblicare un sacco di libri. Da ognuno ci si guadagna poco, e alla fine si tira fuori la pagnotta. Ma questo non fa che peggiorare la situazione. In commercio invece di 10 libri ne hai 10 mila, ma il numero dei lettori è sempre lo stesso».

E tu, come vai? Continui ad avere uno zoccolo di lettori affezionato?
«Sì, uno zoccolo duro di lettori ce l’ho. So che quel tot di copie le vendo perché le ho sempre vendute. Sono molto fortunato: sono riuscito a campare di scrittura. Dal ‘97 vivo di libri e di diritti d’autore. Non mi sono certo arricchito, sia chiaro, ma quello era il mio obiettivo. E, tra narrativa e saggistica, fino alla pensione ci sono arrivato. Mi sono ritagliato una fascia di pubblico che mi è sempre rimasta fedele».

Un traguardo che forse oggi è diventato più difficile.
«Credo di sì. Non sono cambiate solo le strategie editoriali, è cambiata anche la forma stessa delle case editrici. Ho cominciato a pubblicare per Einaudi all’inizio degli anni Duemila. Il contratto l’ho fatto a voce, durante una cena a Mantova assieme a Giulio Einaudi. Io non avevo mai pubblicato con loro. Ero certo che non avesse la più pallida idea di chi fossi. Alla fine della cena, Einaudi mi guarda negli occhi e mi chiede: “Allora Baldini, quand’è che diventi dei nostri?”. Il giorno dopo avevo il contratto scritto e ho cominciato a collaborare con un editor, il più bravo che io abbia mai conosciuto, Severino Cesari, con cui siamo andati avanti per quasi vent’anni. Oggi queste condizioni non ci sono più, e vengono a mancare punti di riferimento reciproci fra autori, editori, mercato. Il turn over dentro le case editrici è enorme. L’ultimo mio romanzo con Rizzoli è di cinque anni fa: sono bastati questi pochi anni perché cambiasse tutto. Non ho più parlato con le stesse persone. Non è una critica alle case editrici, ma una semplice constatazione dell’evoluzione del mercato».

E tutto questo, inevitabilmente, porta a un abbassamento della qualità dei lavori?
«Io sono l’ultimo che potrebbe parlare, in realtà. Ma detto fuori dai denti, ho l’impressione che la narrativa abbia subìto un abbassamento di qualità. E non solo in Italia, sia chiaro. Per tornare al Dopoguerra del mio romanzo: allora, se volevi leggere un buon libro appena uscito, avevi solo l’imbarazzo della scelta. Oggi non è così. Non credo che la ragione sia che gli scrittori siano meno bravi: più probabilmente esercitano il loro mestiere sotto altre forme. Ad esempio: vedo serie tv meravigliose. Se chi oggi scrive serie tv fosse nato 40 anni fa, forse avrebbe scritto romanzi».

Lo spazio della letteratura si è contratto.
«Ed è forse calato anche il livello dei lettori. Le statistiche ci dicono che si usano meno parole di un tempo, che si scrive e
si leggono preferibilmente testi brevi… Si è innescato un meccanismo al ribasso che ha portato a difficoltà oggettive. E nonostante tutto questo in Italia si pubblicano quasi 200 libri al giorno! Quante copie potranno mai vendere! (Ride, ndr)».

EROSANTEROS POLIS BILLBOARD 15 04 – 12 05 24
CENTRALE LATTE CESENA BILLB LATTE 25 04 – 01 05 24
CONAD INSTAGRAM BILLB 01 01 – 31 12 24