
21 grammi, il peso di una piuma, è quello che abbandona il corpo nell’istante della morte. Ma quei 21 grammi, che qualcuno ipotizza siano equivalenti al peso dell’anima, sono presenti – li sentiamo – nel partecipare a Nephesh. Proteggere l’ombra, la performance proposta fino al 20 ottobre al cimitero di Ravenna. Da un’idea e per la regia di Alessandro Renda di Ravenna Teatro (qui una nostra intervista) e dalla drammaturgia di Tahar Lamri, con testi intensi scritti da entrambi, è nata questa performance collettiva di ascolto e micro azioni che ha tutto l’aspetto di una passeggiata filosofica simile a quelle che Platone praticava con i suoi allievi nel parco dell’Accademia di Atene.
Una performance – sostenuta da Azimut di Ravenna ma del tutto esportabile in altri contesti – che è anche una sfida ai tempi, alla paura, alla fretta, perché la morte e il suo ampio e malinconico corollario di esperienze e di emozioni è uno degli enormi rimossi della civiltà presente. La morte attraversa prima o poi l’esperienza di ogni persona, eppure – ad eccezione della partecipazione per gli ultimi saluti – è quanto più di privato e quasi nascosto esista nelle pieghe delle singole vite. Già solo per il coraggio di tematizzare l’ombra della vita varrebbe la pena di prendere parte all’azione. E senza paura di rovinare la sorpresa possiamo anticipare che l’esperienza – della durata di un’ora e mezza circa – non fa paura, non è lugubre. Anzi, per quanto sia vissuta in modo del tutto soggettivo, è forte quanto lo è l’azione della riflessione: si esce con un senso di pacificazione interiore venata di malinconia, che è però un sentimento leggero, mai dirompente.
In cuffia si alternano in dialogo le voci di Alessandro e Tahar: un dialogo socratico fatto di domande, tentativi di risposte, di dubbi, pensieri che partono dal primo vagito della nascita per congiungersi all’ultimo respiro. L’invito è quello di lasciare da parte la fretta, gli obiettivi che in modo pulsante, frenetico, si accavallano nella vita di ogni giorno. Devo, devo, devo, devo: è il ritornello ossessivo nel cervello che spegne ogni possibilità di apprezzare a pieno ogni minuto di esistenza. In cuffia passa il rumore di aerei, ruspe, clacson di auto, martelli pneumatici, come se il silenzio fosse un imbarazzo da estirpare. E prova ne sia la necessità, ovunque – nei bar, ai bagni al mare, nei locali pubblici, al mercato, nei negozi – di avere un sottofondo continuo di musica e voci registrate. Ma il silenzio – quella cascata bianca che unisce tutti i suoni – è l’unica dimensione che permette di sentire il respiro. La voce in cuffia ci avverte: abbiamo due vite a disposizione. La seconda inizia quando comprendiamo di poter vivere una sola vita. L’incontro con la morte di un familiare è il primo avvenimento che ci mette davanti al concetto di fine.

Al cimitero, dove iniziamo a camminare per le strade di una città insidiata da quella dei vivi, ci si confronta allo specchio delle vite e della storia tracciate sulle pietre. Quello che ogni generazione ha vissuto in vita – comprendendo anche tensioni sociali e politiche, scelte pubbliche e private – è impresso e lascia traccia in questa città abitata da attori al confino perenne. In cuffia le voci si alternano a musiche, in una scelta perfetta e ritmata coi passi e le soste. Alcune voci femminili acquisiscono il ruolo di una sorta di coro nelle antiche tragedie, costituendo la terza voce che restituisce il pensiero e le parole pubbliche sulla morte.
La prima sosta è intorno a una grande lapide, la seconda al monumentale, la terza in cerchio attorno a un cipresso. Il pubblico viene invitato a fare piccoli gesti: un profumo si connette al ricordo di una persona scomparsa perché i visi possono sbiadire, le voci possono frammentarsi ma l’odore è sedimentato nelle zone profonde e primarie del cervello. Le parole sono sempre misurate anche se la misura non è la parola mai giusta per comprendere la perdita.
Un’ulteriore tappa è davanti al sacrario militare, dove la morte da esperienza personale diventa collettiva: senza conoscere direttamente il sacrificio delle generazioni che per noi riguardano le due ultime guerre mondiali, l’invito è a pensare all’inutilità dei macelli contemporanei. In nome di chi e che cosa: questa è la domanda universale. La pièce abbatte la barriera delle perdite nazionali perché i morti sono uguali per tutti: per loro occorrerebbe un lutto sovranazionale, un lutto universale.
La tappa all’ossario si propone come un’altra esperienza collettiva di riflessione sulle generazioni. Due genitori, quattro nonni, otto bisnonni, 16 trisnonni per risalire ai 30.000 nostri consanguinei del Rinascimento, al miliardo che ha anticipato ogni persona risalendo all’alba dell’anno 1000. Sconcertante la riflessione sul flusso di persone in cui siamo immersi e la quantità di cicli vitali che in un battito ci hanno anticipato. Siamo quasi tutti parenti in un modo o in un altro. Anche senza Adamo ed Eva, bastano le analisi del codice genetico per comprendere che i corpi sono molto più simili e nostri consanguinei più di quanto sembri.

Nella passeggiata fra i reparti e i blocchi c’è spazio per l’ascolto di un’esperienza privata di perdita. Si parla di una bambina sconosciuta ma le parole di chi perde si assomigliano tutte e definiscono gli umori di rabbia, tristezza, di vuoto che si allarga e soffoca, riempie ogni cosa. Il terremoto che corrisponde alla perdita di una persona cara segna il prima e il dopo di ciascuna vita. Dopo una fine c’è quindi chi vive in un eterno lutto evitando la solitudine per vivere per sempre con i propri cari; c’è chi invece guarda l’orizzonte del cimitero delineato dalla zona industriale e dalle ciminiere. Possiamo immaginare campi, giardini dell’infanzia, albe e spiagge, oppure alzare gli occhi e vedere i gabbiani – reali, non immaginati – che attraversano lentamente il cielo, o ruotare danzando come un derviscio per unirci a una preghiera riconciliante col principio. Si cammina portando candele all’interno del monumentale e viene da pensare a un film di Andrej Tarkovskij in cui l’attraversare con la fiamma accesa rappresentava un atto di fede assoluta nei confronti della vita. Quel patto l’abbiamo fatto con lei al primo vagito, inconsapevolmente. Qualcuno di noi l’ha dovuto poi verbalizzare da adulto, mettendosi di fronte a una scelta che doveva essere denitiva. Finita la performance, si esce quindi tenendo stretti quei 21 grammi in più, provando un sincero senso di gratitudine.