«L’etichetta Brutture Moderne? Non è un business ma ci permette di portare avanti pensieri creativi»
Il concerto di Cesare Basile, domenica 17 novembre (dalle ore 17) al Cisim di Lido Adriano, è anche un’ottima occasione, in apertura di serata, per ascoltare in anteprima dal vivo Pellegrino, terzo album dei Manuel Pistacchio che uscirà nel febbraio del 2025, preceduto da una serie di singoli (venerdì 15 novembre è uscito il secondo, Parole). Trio formato da Diego Pasini (testi, voce e chitarra) e Lorenzo Camera (synth, chitarra, percussioni e arrangiamenti, già in Ponzio Pilates e Mondoriviera), entrambi di Bellaria Igea Marina, e dal ravennate Francesco Giampaoli (basso, synth, percussioni e arrangiamenti, attivo, tra gli altri, in Sacri Cuori, Classica Orchestra Afrobeat, Hugo Race Fatalists e Opez, nonché titolare dell’etichetta Brutture Moderne), Manuel Pistacchio è senza dubbio una delle realtà più interessanti e apprezzate della scena rock indipendente nazionale. Abbiamo fatto due chiacchiere con Francesco Giampaoli e Diego Pasini.
I titoli dei primi due dischi dei Manuel Pistacchio, Di primo mattino e Scordato Cuore, prendevano entrambi spunto da poesie (una di Roby Puma, artista e performer di Bellaria Igea Marina, l’altra di Montale) qual è invece l’origine di Pellegrino?
Diego Pasini: «Per Pellegrino non c’è un riferimento preciso a un poeta, ci piaceva usarlo perché secondo noi esprime la poetica, sia sonora che testuale, dell’album. È l’anima in comune di Manuel Pistacchio, quella dei tre musicisti che si fa in qualche modo pellegrina, devota e in qualche modo veggente, che intraprende un po’ questo viaggio che va avanti da cinque anni mettendo come meta sacra la musica. È un album che abbiamo davvero scritto in tre, ognuno ha suonato determinati strumenti (Francesco poi ha fatto i mix e la produzione) e messo la propria caratteristica in ogni brano».
Francesco Giampaoli: «Sicuramente il titolo ha a che fare col muoversi, col viaggio. Quando ho conosciuto Diego e Lorenzo nel 2018, loro avevano fatto 4, 5 pezzi e ascoltarli per me fu davvero un’illuminazione, oltre al fatto che mi sembrava di essere con loro da sempre, erano come i miei amici di quando avevo vent’anni, e tutto questo senza dire nulla. Questa vicinanza in campo artistico prosegue da allora, e quindi è un viaggio che ha a che fare con la musica, con lo spostarsi, con dimensioni parallele, trascendentali, volendo, vai te a capire cosa è l’arte».
Una musica che trascende se stessa, quindi.
FG: «Per me è un’esperienza che ci porta ad approdare a luoghi nuovi e inaspettati e il fatto di farlo insieme rende questi luoghi unici. C’è condivisione, un dialogo dal punto di vista creativo, c’è questo trovarsi in posti sempre nuovi, muoversi, cercare. Per me fare musica ha assolutamente a che fare con lo spirito, va al di là della realtà più concreta e ti porta in altri mondi. Fare questa musica insieme è esso stesso rivelazione, occorre la volontà di ascoltarsi e farlo, questo viaggio. E credo che stiamo facendo davvero una bella passeggiata».
Le sonorità di Pellegrino sono diverse dal precedente Scordato Cuore, sembra più “suonato”.
FG: «La sonorità dei Manuel Pistacchio è frutto di un approccio sempre molto maniacale, ma mentre prima eravamo ancora più astratti, ora abbiamo tirato fuori il musicista che suona in maniera un po’ più concreta, e questo disco è, se vuoi, un po’ più semplice, per quanto non manchino i tocchi di elettronica sperimentale. Manuel Pistacchio prima aveva una componente molto onirica nel suonare, adesso c’è anche quella più terrena del musicista che suona, più fisicamente in primo piano. Prima a volte eravamo più astratti, ma anche questo fa parte del viaggio, dello spostarsi. Abbiamo sempre un’attenzione profonda nel rispetto di un pensiero estetico, però non c’è la paura di gettarsi anche nel vuoto. Ci siamo trovati in una situazione nuova e quindi, sì, ci sono sonorità diverse, così come lo erano quelle del secondo disco rispetto al primo. Siamo una vera band e tutti e tre gli elementi ci mettono dentro la propria creatività, creando tantissime possibilità».
DP: «Il fuoco in Pellegrino va più sull’alchimia tra musicista e strumento, come se lo strumento divenisse anche una sorta di oggetto magico, un ponte tra l’intuizione e la scrittura. Anche registrare nello studio di Francesco, in una modalità diversa dalle altre volte, è stata una scelta in qualche modo estetica».
Diego, tu scrivi i testi: come arrivano? Ispirazioni improvvise o riflessioni su temi che ti stanno a cuore?
DP: «Un po’ entrambe le cose. Per scrivere una canzone o la linea melodica parto molto spesso dal testo e in rari casi sono riuscito a creare le due cose insieme. Sento che la mia creatività si manifesta molto nello scrivere, nel creare immagini con le parole. Un’elaborazione della scrittura parte molto spesso da una domanda, poi seguita da una ricerca. Usare la poesia e le immagini è il modo migliore in cui riesco a esprimere un determinato concetto, più che con la prosa. Lo vedo come un metodo più ermetico ma riesce a scavallare determinati muri, è una specie di simbolismo per chi vuole ascoltare anche più in profondità».
Francesco, la tua etichetta discografica Brutture Moderne ha quasi quindici anni, tempo di bilanci?
FG: «Sono sicuramente contento, ho sempre visto l’etichetta come gli argini di un fiume che possono raccogliere la creatività e dargli più forza. Non è sicuramente un gran business, però continua a darci la possibilità di poter portare avanti dei pensieri creativi. Si cerca sempre di capire come fare meglio però ci confrontiamo di continuo con generazioni sempre più giovani, ad esempio proprio i Manuel Pistacchio sono molto più giovani di me, il primo disco l’ho fatto semplicemente come discografico, ne ho seguito la produzione, però dal vivo suonavano con il fratello di Lorenzo, Matteo Camera, che a un certo punto è partito per lungo tempo e l’ho sostituito, entrando nel gruppo abbastanza casualmente. Ma stiamo facendo dischi con ragazzi ancora più giovani, come Mary Bianco. Non ho però la fissa dei giovani, non credo sia un valore assoluto di per sé, anche se in questo momento sembrerebbe così, però anche avere questo rapporto costante tra generazioni, questo dialogo, secondo me è il modo giusto per portare avanti il pensiero creativo. Si chiamano radici, le si possono portare avanti oralmente e, appunto, con la condivisione umana, l’etichetta mi permette di fare tutto questo e ne sono molto contento».
Ci sono artisti che in qualche misura si possono considerare un’ispirazione nel tuo lavoro di musicista?
FG: «Ho alcuni artisti che mi fanno da punto di riferimento – e che non cambiano per qualsiasi tipo di musica faccia –, come se fossi circondato da 4, 5 puntini che a seconda delle situazioni si trasformano in tante stelle polari. C’è Paolo Conte, il Mulatu Astatke delle ethiopiques series, poi Lou Reed e i Velvet Underground, a loro penso anche quando faccio afrobeat. In realtà è molto interessante ispirarsi ai Velvet Underground mentre stai facendo un brano di Fela Kuti, per dire. C’è Duke Ellington, e poi c’è una bassista americana tuttora vivente che ho scoperto in tarda età, si chiama Carol Kaye, una delle bassiste più prolifiche della storia della musica, attiva negli anni ‘50, ‘60 e ’70. Lei inventò dei metodi scolastici, che ho studiato, e che tuttora mi danno spunti creativi. Poi io penso più agli arrangiamenti e ai modi di suonare che alle parti specifiche, approcci creativi più che altro. Per fortuna mi capita di suonare in campi abbastanza diversi, ad esempio, con la Classica Orchestra Afrobeat ci confrontiamo con la musica africana, ma da poco ho fatto un disco assieme a Koralle/Lorenzo “Nada”, che si chiama Bassona, in cui suono contrabbasso e chitarre e lui tastiere e beat. Quindi mondi molto diversi».
Qual è il tuo rapporto con le piattaforme di streaming?
FG: «Le modalità di fruizione della musica stanno cambiando e noi cerchiamo di capire come poter adattarci al meglio. Conosco tanti artisti della mia generazione, e anche più vecchi, che danno vita a lotte infinite con Spotify, ma, a parte certe ragioni che posso condividere, il mondo cambia e devi imparare ad adattarti, non è una battaglia. In una situazione “mordi e fuggi” come quella attuale, fare uscire i vari brani uno alla volta, ad esempio, come per il disco dei Manuel Pistacchio, è un modo per comunicare un po’ di più l’intero disco. E comunque è ormai una prassi comune».