martedì
24 Giugno 2025
L'INTERVISTA

Luigi De Angelis e i Premi Ubu: «Ma dopo 32 anni viviamo ancora nell’incertezza»

Parla il regista della compagnia ravennate Fanny & Alexander

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LuigiCon il recente successo ai Premi Ubu dello spettacolo Trilogia della Città di K. (un progetto di Federica Fracassi tratto dall’omonimo romanzo di Agota Kristof e andato in scena al Piccolo di Milano), il regista della compagnia ravennate Fanny & Alexander, Luigi Noah De Angelis – Noah è il cognome della madre, che De Angelis ha deciso di aggiungere al suo per omaggiare la famiglia – si è aggiudicato, oltre a quello per il miglior spettacolo, i riconoscimenti per la miglior regia, il miglior disegno luci e la migliore scenografia (senza contare quello per il miglior progetto sonoro, firmato da Mirto Baliani e Emanuele Wiltsch Barberio). Con Noah De Angelis parliamo di questa felice esperienza e del futuro della compagnia.
Luigi, da dove è arrivata la messa in scena della Trilogia?
«Il libro mi fu regalato negli anni Novanta, agli inizi di Fanny & Alexander, dalla madre di Chiara Lagani (cofondatrice della compagnia, che nella Trilogia cura adattamento e drammaturgia, ndr) Loretta Masotti, che era la mia professoressa di storia e filosofia al liceo classico, e fu una rivelazione. Tanti anni dopo, l’intuizione di Federica Fracassi è stata quella di proporcene la messa in scena. Noi non ci avevamo mai pensato e a quel punto ci siamo anche chiesti come fosse stato possibile, visto che si tratta proprio di un’opera nelle nostre corde. A volte le commissioni esterne possono essere illuminanti. Insomma, una bellissima idea, e per me è stato anche un onore poter mettere in scena un testo di così grande complessità in un teatro importante come il Piccolo».

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Trilogia della città di K. – Foto di Masiar Pasquali

Proprio la complessità e lo spaesamento mi sembrano gli aspetti del libro più difficili da rendere a teatro, come avete lavorato?
«Chiara ha fatto l’adattamento, facendo un lavoro di ricerca quasi da detective sulla questione dei due gemelli protagonisti. È stata anche a Koszeg, ai confini tra Austria e Ungheria, che di fatto è la città di K., e la storia della trilogia è anche la storia dell’esilio di Agota Kristof stessa dall’Ungheria in seguito all’invasione dei russi. Personalmente, la cosa che più mi interessava fin dall’inizio era di mettermi al servizio della soggettiva del lettore, che, soprattutto nella prima parte, è quella di confrontarsi con la violenza delle situazioni, perché la lingua del libro, sintetica e telegrafica, ti porta a questo confronto con una violenza di situazioni in cui occorre molto immaginare. Come spesso mi capita è scaturita in me un’immagine – che chiamo generatrice – che ha poi guidato un po’ tutta la messa in scena dello spettacolo, ed è quella di un’installazione per il Museo d’arte di San Paolo (aperto nel 1968), in Brasile, fatta dall’architetta che lo aveva progettato, Lina Bo Bardi, italiana naturalizzata brasiliana. Nel museo le opere sono tutte allestite in un’unica stanza, senza gerarchie di nomi o correnti artistiche. Le opere sono tutte sospese su dei vetri trasparenti incastonati su basamenti di marmo, per cui la prima impressione, quando si arriva nella sala, è che le opere stiano volando, e la cosa molto interessante è che questo tipo di allestimento obbliga il visitatore ad avere un atteggiamento totalmente diverso dal solito perché i titoli sono dietro i quadri, dunque si deve essere attratti dall’empatia che l’opera crea nei tuoi confronti, da come l’immagine ti attrae, non hai altre informazioni se non la tua propria esperienza. Quindi ecco l’idea, con questi 21 schermi di varie dimensioni posizionati nello spazio – la sala Melato del Piccolo è un anfiteatro, si prestava bene – che andavano a creare una narrazione frammentata, in cui lo spettatore fa delle scelte continue tra cosa guardare o come comporre, istintivamente, senza pensarci, è una foresta di immagini che cambia continuamente a seconda dei momenti della narrazione».
Non sorprende che oltre a quello per la regia siano arrivati anche i premi per luci e scene.
«Lo dico sempre, in quello che faccio io non potrò mai scindere scena e luci, mi sento più un architetto, non sono un regista che va dire all’attore come deve dire le battute; semmai cerco di creare un mondo in cui l’interprete viene messo in un sistema complesso di stimoli, come in effetti può succedere quando, entrando in un’opera architettonica, siamo indotti a guardare in un certo modo, ad andare in una certa direzione. Non è che pensiamo a come approcciarci a una porta o a scendere le scale, è l’architettura che in maniera invisibile ti induce a farlo. Io lavoro così, quindi scindere luci e scene dalla regia sarebbe impossibile, e infatti, come dici, è coerente che ci siano stati questi premi uno attaccato all’altro».
Fanny & Alexander ha sempre trovato grande ispirazione dalla letteratura, una scelta o un caso?
«Sicuramente è anche una scelta, perchè c’è un amore molto grande per la letteratura, per la sua capacità di inventarsi dei mondi e di lasciare molto spazio a chi legge, e per noi questo percorso attivo del lettore – così come quello dello spettatore – è molto importante, anche se poi molti nostri lavori partono da istanze legate alla realtà. Sicuramente i romanzi spesso permettono una specie di bagno alchemico con un mondo altro e quindi permettono di giocare alla ricostruzione e all’evocazione di un mondo complesso».
Per il 2025 su cosa state lavorando?
«Abbiamo un progetto lirico a I Teatri di Reggio Emilia che debutterà il 16 maggio, la compositrice è Virginia Guastella (palermitana ma residente a Bologna) e il titolo è My name is Floria, una nuova opera, sarà una prima mondiale. Si tratta di un lavoro sul post-Tosca, ossia l’idea di essere nella testa di Floria dopo il tentativo di suicidio che qui non si è concretizzato; è il ricostituirsi di Floria dopo il trauma. Poi ci sarà uno spettacolo al Ravenna Festival, Ghosts, dai racconti di Edith Wharton che Chiara Lagani sta traducendo per Einaudi, con in scena la stessa Chiara e Andrea Argentieri. La cosa davvero emozionante è che in quell’occasione torneremo a lavorare con quello che io considero il mio maestro assoluto di sound-design, ossia Luigi Ceccarelli, con cui collaborammo nel 2001 per Requiem. Invece in autunno, sempre al Piccolo di Milano con Federica Fracassi, faremo un lavoro a partire da un altro scritto di Agota Kristof, L’analfabeta, la sua autobiografia. Una specie di secondo capitolo del nostro incontro con la scrittrice. Inoltre, al di fuori di Fanny & Alexander, sto lavorando al mio primo lungometraggio. Dopo La trilogia, dove per la prima volta mi sono confrontato anche con un cast solo in video, ho pensato di recuperare delle idee che avevo nel cassetto, ed essendo io un artista belga, ho redatto in Belgio un soggetto e sono riuscito ad avere un fondo per la scrittura a livello professionale di questo film, che si chiama Le courant d’Alexandre (La corrente di Alessandro) ed è scritto in francese, la mia prima lingua».
Di cosa parla il film?
«È su un adolescente, studente di botanica, che sta perdendo la madre malata gravemente e che va a Berlino negli ultimi mesi della malattia perché ha l’occasione di poter raccogliere materiali su quello che è il suo soggetto di tesi, Alexander Von Humboldt, il primo ecologo della storia. Là scopre le registrazioni della voce di Von Humboldt e grazie all’ascolto si connette al suo universo, al metaverso si potrebbe dire, diventando lui stesso Von Humboldt nel passato. Grazie a queste connessioni quasi sciamaniche riesce a trovare la forza per superare il suo momento di grande difficoltà esistenziale. Ho finito di scrivere la sceneggiatura, c’è una produzione in Belgio, vedremo, la voglio portate avanti assolutamente, insieme al teatro».
Ti ho intervistato per la prima volta nel 2005. Come sono cambiati in vent’anni Fanny & Alexander? E il teatro italiano?
«Chiara Lagani e io siamo cambiati nel senso che abbiamo saputo inseguire anche i nostri desideri individuali, senza aver paura di perdere la forte connessione che ci unisce. La curiosità di portare avanti anche progetti singoli fuori dalla compagnia ci ha nutrito tantissimo e ha fatto sì che potessimo crescere senza fossilizzarci in una formula. Ad esempio, l’dea di fare cinema è dovuta al fatto che a 50 anni mi è tornata la voglia di essere un principiante, perché è vero che ho 32 anni di esperienza nel teatro e nel video ma il cinema è un’altra lingua, e sono convinto che quando quest’esperienza si concretizzerà andrà a nutrire il teatro in un altro modo ancora una volta. Poi sicuramente è cambiato che riusciamo a fare un progetto così complesso come La trilogia al Piccolo, cosa che non siamo mai riusciti a fare altrove, se non in ambito operistico. Per quanto riguarda invece il teatro italiano, la situazione non è semplice, perché negli anni si è cercato sempre più di schiacciare le compagnie indipendenti, di fare in modo di smembrarle perché ognuno lavori sempre più come singolo che come gruppo. Lo vediamo anche nell’ambito dell’opera lirica, si fa molta fatica a far passare il concetto di team, anche la legislazione per i pagamenti cerca di andare contro questa dimensione, è tutto molto complesso. Però speriamo che i riconoscimenti facciano sì che si continui a lavorare. Essendo fuori dal grande sistema del mercato degli scambi, noi soffriamo e siamo sempre al limite della sopravvivenza. Dopo 32 anni di lavoro essere ancora qui con il cappio dell’incertezza è inspiegabile».

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