martedì
17 Giugno 2025
RAVENNA FESTIVAL

Con Don Chisciotte a rincorrere sogni tra castelli incantati e rovine sospese

Il racconto delle prime due ante dell’opera in fieri delle Albe, in cui lo spettatore si fa “errante”: il trittico si conclude negli spazi cangianti del Rasi

Condividi

Anche se l’impronta onirica delle Albe ci è ormai familiare, nel Don Chisciotte ad ardere questa cifra si fa ancora più evocativa, assecondando e al tempo stesso stravolgendo l’assurdo del capolavoro di Cervantes.

Lo spettacolo riprende la formula – già collaudata col trittico sulla Commedia – del percorso in tre ante, itinerante, con al centro i cittadini e le cittadine che hanno risposto alla “chiamata pubblica”. Questa volta però, lo spettacolo è in fieri: lo vediamo costruirsi sotto i nostri occhi, riavvolgere i fili e aggiungere ogni anno un nuovo tassello, in una narrazione corale e sfaccettata che libera Don Chisciotte dall’immagine stereotipata dei mulini a vento, restituendogli nuova potenza visionaria.

L’anta finale è in programma dal 25 giugno al 13 luglio (tutti i giorni tranne il lunedì e il giovedì) alle 20. Si parte dal Palazzo Malagola (il centro studi vocali diretto da Ermanna Montanari, che qui si trasforma in “castello incantato”), si passa al Palazzo di Teodorico, il “castello in rovina”, fino ad approdare quest’anno al Rasi, storica casa delle Albe: «Un antico edificio? Una chiesa? Un teatro?».

Ad accogliere il pubblico ci sono Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, ideatori, autori e registi dello spettacolo. Dal balcone del primo piano, la ricerca vocale di Montanari si fa anche sperimentazione del linguaggio, mentre saluta gli “erranti” con parole rotte, inesistenti ma istintivamente comprensibili. Poi si entra nell’androne, scortati da Martinelli; qui il sogno non è più una sensazione ma si fa materia: trascritto dalle sarte, cucito in libri immaginari, rincorso dal gesso di Stefano Ricci o affidato direttamente allo spettatore su un foglietto di carta, che di quel sogno diventa complice e custode.

Si prosegue in un percorso che sfuma tra installazione e teatro: tutto è realistico, ma niente è reale. Come la famiglia seduta al tavolo a sorseggiare il brodo, ma da un piatto vuoto e con la forchetta. Gli uffici disordinati evocano l’urgenza di una riunione, ma sono deserti e bui. L’errante sale, scende, apre tende, attraversa stanze. Tra il sogno e la metafora del reale, non sa cosa può trovare dietro ogni soglia: una bellissima sirena incastrata in una pozzanghera o l’orrore della guerra, racchiuso in un macello tra carne viva e sangue.

Alla fine del labirinto, la locanda. L’errante si siede e si prepara a tornare spettatore, ma ecco che lo spettacolo non c’è. La band sta ancora provando (le musiche sono affidate ai Leda) e il palco lo stanno ancora pulendo.

L’ingresso in scena di Don Chisciotte (Roberto Magnani) è quasi inaspettato, con lui un Sancho Panza più ardito e risoluto di quello che avevamo lasciato tra i libri di scuola (un brillante Alessandro Argnani) e un’assurda, affascinante e capricciosa Dulcinea del Toboso (Laura Redaelli). Montanari e Martinelli invece sono Hermanita e Marcus, i maghi “dalle bacchette spezzate” che intrecciano e sciolgono le trame sul palco.

Qui la prima anta entra nel vivo: le vicende del romanzo si rincorrono, si confondono con la cronaca e i sogni dell’eroe si sovrappongono a quelli dell’uomo contemporaneo. La voce dei protagonisti si scontra in modo impari con l’esplosione del coro (composto da tutti quei cittadini, adulti e adolescenti, che hanno risposto alla chiamata pubblica). La dicotomia tra storia e attualità, realtà e sogno, leggero e cinico, si intensifica in crescendo: la folla condanna l’eroe, il testo di Martinelli e Montanari scivola tra le parole estrapolate dagli elaborati del coro, il re libera i carcerati e i libri gettati dalla finestra, bruciano nel falò.

Mentre le pagine si consumano tra le fiamme, i cancelli si aprono, e non resta che seguire il mago: per via di Roma, gli erranti si fanno topolini dietro il “pifferaio magico”, fino all’arrivo al castello in rovina. È bello ritrovare palazzo Teodorico così, nella notte e attraverso il velo del teatro. Illuminato dai bracieri ha un aspetto quasi sacrale. Qui i maghi, per qualche battuta, sembrano lasciare cadere la maschera e tornare Ermanna e Marco. Basta il sogno di Sancho Panza di aprire una pasticceria e di chiamarla “Vela Bianca” per far ripiegare su se stesso il lungo viaggio dei caballeros dalla Mancha a Punta Marina. Questa volta, il coro al centro della scena è quello degli adolescenti, e tra le fiamme inizia a dispiegarsi la storia centrale di questa seconda anta: “La schiava di Algeri”, novella fondamentale nel romanzo di Cervantes.

Nel coro emerge la voce di Giulia Albonetti che, con la rabbia dei suoi 17 anni, quando nei panni della schiava grida allo spettatore di essere stata «solo una bambina» mentre subiva tutta quella violenza, non solo convince, ma ti fa sentire come se la colpa fosse anche tua.

È questa la sensazione con cui si lasciano le rovine, il sogno si è mischiato all’incubo e i tre eroi (o anti-eroi) se ne stanno tra macerie più smarriti di come li avevamo lasciati un anno fa. Questa volta però, il percorso proseguirà verso il Teatro Rasi, dove l’ultima anta andrà a concludere la storia in una rappresentazione finale di quattro ore e mezza. Ore che scorrono in modo innaturale, proprio come nel tempo sospeso del sogno.

Condividi
Contenuti promozionali

DENTRO IL MERCATO IMMOBILIARE

CASA PREMIUM

Spazio agli architetti

La casa di Anne

Il progetto di un'abitazione del centro di Ravenna a cura dello studio di Giovanni Mecozzi

Riviste Reclam

Vedi tutte le riviste ->

Chiudi