venerdì
20 Giugno 2025
cinema

Elisa Battistini e la “luce oscura” di Lars von Trier: «Scrivere questo libro era un conto in sospeso»

La giornalista ravennate ha pubblicato una lunga monografia sul regista danese. «Quando l’ho incontrato ho sentito una persona che in qualche modo ho sempre conosciuto»

Condividi

È appena uscito per le milanesi Edizioni Bietti Lars von Trier – La luce oscura, lunga monografia che la giornalista e critica cinematografica ravennate (ma di stanza a Roma) Elisa Battistini ha scritto dopo aver avuto anche la rarissima possibilità di incontrare di persona il regista danese. Battistini, già collaboratrice di Ravenna&Dintorni e per anni in forza a il Fatto Quotidiano, presenterà il libro (che vanta tra l’altro una prefazione dell’attore statunitense Willem Dafoe) lunedì 23 giugno alle 18 alla libreria Feltrinelli di Ravenna, ma nel frattempo abbiamo fatto due chiacchiere.

Elisa, quando hai deciso che dovevi scrivere un libro su Lars von Trier?
«Era da tanti anni che ci pensavo, von Trier è l’autore che sapevo di dover affrontare perché è sempre stato un regista per me molto significativo, con cui mi sono sempre sentita in grande sintonia – almeno da Dogma 95 (il movimento cinematografico creato insieme a Thomas Vinterberg nel 1995, ndr), da quando ero ragazzina – e quindi questo libro era un conto che avevo in sospeso con me stessa. Poi, nel 2022, Zentropa, la casa di produzione cinematografica fondata da von Trier, ha annunciato che al regista era stato diagnosticato il Parkinson e questa cosa mi ha spinto a pensare che dovevo assolutamente farlo e che – so che è brutto da dire – se volevo in qualche modo anche provare a incontrarlo, il tempo non era infinito. Von Trier non è eterno. I registi che amiamo molto – penso anche a Lynch – ci sembrano immortali perché lo sono le loro opere, ma purtroppo non lo sono come esseri umani. Questa notizia della malattia, che non è mortale ma cronica e degenerativa, ha accelerato la decisione di scrivere questo libro. Quindi all’inizio del 2023 mi ci sono messa, ho iniziato a studiare, ho letto tanti libri su di lui, ho parlato con altri studiosi e infine sono andata in Danimarca perché avevo capito che dovevo rivolgermi a Peter Schepelern (studioso, professore e amico di von Trier, ndr) per affrontare in maniera compiuta il lavoro di von Trier, e quello è stato un passaggio fondamentale».

In seguito hai anche incontrato von Trier di persona, circostanza niente affatto scontata.
«No, infatti. Sicuramente l’intercessione di Schepelern, suo amico storico, ha aiutato, ma durante la stesura del libro ho poi avuto una corrispondenza via email con von Trier, il che era già una sorprendente anomalia visto che non risulta essere la persona più socievole del mondo. Dunque nel marzo del ‘23 sono andata in Danimarca da Peter e nell’agosto 2024 ho potuto trascorrere una giornata a casa di von Trier. Incontrarlo non era fondamentale per scrivere il libro: è un regista che ha parlato tanto negli anni, almeno fino al 2011, ma certo il desiderio di conoscerlo era forte».

E com’è stato?
«Fantastico. Davvero molto bello e naturale, mi son sentita completamente a mio agio e accolta, mi ha fatto sentire a casa. E proprio questo è stato l’aspetto più soddisfacente, perché quando ti impegni molto a ragionare su una persona e sul suo lavoro, è bello sentire un riscontro anche a livello umano. Siamo abituati a dire che deve essere l’opera il volto vero dell’artista, e certamente è così, ma io nel lavoro di von Trier ho sempre sentito molto la sua umanità e anche i suoi cambiamenti interiori, e quando l’ho visto ho avvertito la forza che possiede e anche la sua apertura nei miei confronti. Ho sentito una persona che in qualche modo ho sempre conosciuto. E quindi è stata una conferma del lavoro che io stessa avevo svolto su di lui, perché mi ha restituito quel tipo di tono emotivo, di ironia, brillantezza e gentilezza che immaginavo possedesse».

Perché Lars von Trier è uno dei più grandi registi della storia?
«Domanda da un milione. Ci sono a mio parere molti aspetti intrecciati fra loro, la questione è multifattoriale, un singolo aspetto di per sé non porterebbe ai risultati di von Trier. Partiamo dal fatto che von Trier è un regista massimalista, radicale, che porta il pensiero alle sue estreme conseguenze. Von Trier parte da un ragionamento, da un’ipotesi, da un “vediamo cosa succede in questa situazione” e porta tutto al massimo. A questo però si deve associare il fatto che è un regista che, fino ad Antichrist, ha adottato stili specifici per ogni film e non ce n’è uno, a parte Dogville e Manderlay, che abbia lo stesso concept: von Trier declina ogni storia, ogni fiaba nera che racconta con regole formali differenti e nessun film è uguale all’altro. Dico fino ad Antichrist perché gli ultimi quattro lungometraggi sono più sincretici, nel senso che raccolgono tante traiettorie che vanno dai suoi esordi fino a quel momento. Si tratta di film anche questi estremamente precisi da un punto di vista formale, ma in un’accezione diversa che credo di spiegare piuttosto diffusamente nel libro. In buona sostanza von Trier ci sorprende sempre raccontandoci storie estreme e secondo me chi lo ama sente – anche se magari inconsciamente – che i mutamenti stilistici e l’evoluzione del suo pensiero (che è cambiato pur restando molto fedele alle proprie origini) seguono anche il mutamento umano del regista. Questo ci restituisce un vero e proprio percorso artistico, umano, filosofico e stilistico, facendo di von Trier un regista di un nitore e di una limpidezza rari». 

C’è un film di von Trier che consideri il tuo preferito? E, al contrario, uno che ti è piaciuto meno?
«No, non esiste un film preferito, perché non riesco più a percepirli nell’ordine di bello o brutto, hanno tutti scavallato questo tipo di criterio. Posso però dire quelli per me più significativi. Idioti è il suo film più importante, se guardiamo la faccenda con l’ottica dello storico del cinema, perché c’è in mezzo Dogma 95 con il suo ritorno alla purezza e con il suo rifiuto di un cinema industriale: qui von Trier si libera poi definitivamente del formalismo che caratterizzava i suoi primi tre lungometraggi, quindi è un lavoro in cui si denuda molto, un film in cui von Trier “esce” parecchio. Inoltre è un lavoro che, nel ‘98, ci diceva cose molto chiare sulla nostra società e su dove saremmo andati a finire se non avessimo accolto l’umanità che è in noi. Un film fondamentale. Poi, sottolineando che secondo me von Trier da Idioti ha fatto solo film bellissimi, l’altro cruciale è Nymphomaniac, una specie di compendio di tutto il suo cinema e del von Trier-pensiero. In realtà c’è anche un film che non amo ed è Le onde del destino, che trovo di transizione, ancora di messa a fuoco. Nel libro questa cosa è molto argomentata, non tanto per il mio giudizio che è relativo, ma per come nasce quel film, per i cambiamenti degli script e così via. Di certo è un film centrale per von Trier perché è il primo lungometraggio che scrive da solo (non c’è più il coautore dei primi lavori, Niels Vørsel) e perché con Le onde del destino il regista danese torna a riferimenti, come il Marchese De Sade, che gli interessavano molto quando era adolescente. Rimane ancora oggi il film più amato di von Trier, probabilmente, ed è certamente interessante, ma è dal successivo Idioti che Lars von Trier secondo me prende il volo».

Come tutti sanno, al Festival di Cannes del 2011, dove presentava Melancholia, von Trier fu espulso a seguito di dichiarazioni riguardo al nazismo molto controverse. Tu cosa pensi di quella faccenda?
«Fin dal suo primo lungometraggio del 1984, Lars von Trier viene selezionato dal Festival di Cannes, sotto la direzione di Gilles Jacob. Von Trier è uno dei figli principali di Cannes, è il regista forse più cannense degli ultimi quarant’anni. A Cannes si è sempre sentito a casa e sa di poter parlare liberamente. Io ho conversato con lui una giornata e, anche se una giornata non può essere emblematica, è evidente che ami parlare: se si sente a proprio agio, è un vero chiacchierone. Ma a Cannes non sei a casa tua. La conferenza stampa di Melancholia è stata l’incidente di una persona che, in qualche modo, ha straparlato sentendosi a proprio agio e ha detto, en passant, una cosa su Israele – che definì “a pain in the ass”, cioè un “spina nel culo” – e poi fatto una battuta, ridendo, “Ok, I’m a nazi”, “Ok, sono un nazista”, la frase che è stata usata per cacciarlo. Ma quello che penso io, personalmente, è che il vero vulnus sia quel che ha detto su Israele, poiché von Trier non è sionista benché sia stato cresciuto da un genitore ebreo, il quale a sua volta non era sionista. Capiamo forse meglio oggi quanto questo tasto sia delicato… Quel che resta di questa storia spiacevole, soprattutto per lui, è che von Trier si è giocato la seconda Palma d’Oro, perché Melancholia era il favorito per la vittoria, almeno fino a quel giorno. Evidentemente von Trier non è un furbo calcolatore, contrariamente a quel che pensano molti: se lo fosse stato, in casa forse avrebbe due Palme anziché una. Quanto alla questione del nazismo, è evidente che sia una battuta. Magari sciocca e di certo autolesionista. Von Trier è sempre stato un uomo di sinistra, allevato da genitori marxisti, e ancora oggi è un pacifista assoluto, piuttosto sgomento del mondo che ha attorno».

Condividi
Contenuti promozionali

DENTRO IL MERCATO IMMOBILIARE

CASA PREMIUM

Spazio agli architetti

Un appartamento storico dallo stile barocco e la rinascita di Villa Medagliedoro

Alla scoperta di due progetti di Cavejastudio tra Forlì e Cesena

Riviste Reclam

Vedi tutte le riviste ->

Chiudi