ErosAntEros compie 15 anni (a questo link gli spettacoli e gli eventi in programma il 26 e il 27 settembre): abbiamo sentito i fondatori della compagnia per fare un piccolo bilancio di questi tre lustri.
Com’è nata ErosAntEros?
Agata Tomšič: «Davide e io ci siamo conosciuti a un laboratorio dei Motus organizzato a Ravenna dai Fanny & Alexander, nel gennaio del 2010. Lì è nato il desiderio di iniziare a collaborare, partendo da un progetto che Davide stava portando avanti da sei mesi con altre collaborazioni sul territorio, ossia asprakounelia (Treno Fantasma), che poi debuttò nel maggio del 2010. All’epoca ero ancora una studentessa del Dams di Bologna e le grandi compagnie del territorio – oltre Fanny e Motus anche Valdoca, Albe, Teatrino Clandestino, Socìetas – avevano fatto nascere in me il desiderio di fare teatro nella vita. Davide invece lavorava in ambito teatrale già da alcuni anni. Conoscendoci ci siamo resi conto non solo di avere un’enorme passione per il teatro ma anche un gusto estetico comune, che arrivava dall’aver seguito gli stessi gruppi e gli stessi spettacoli per anni. Questo fuoco, questa passione enorme ci hanno portati a essere ancora qui dopo 15 anni».
Dopo asprakounelia e i seguenti due spettacoli, TraScendere e Nympha, mane!, ho ravvisato una sorta di cambio di direzione nel vostro approccio drammaturgico, che da performativo e molto visivo si è avvicinato molto al teatro di parola, al politico.
Davide Sacco: «È vero. Già Nympha, mane!, del 2012, era una riflessione sul potere delle immagini, però dopo quello c’è in effetti stato un cambiamento importante con il percorso di Come le lucciole, che era comunque partito anch’esso nel 2012 per poi arrivare a una forma presentata al pubblico nel 2015».
AT: «In realtà anche Brecht aleggiava in qualche modo in Come le lucciole, per quanto Brecht non fosse direttamente nello spettacolo ma finì per portarci alla creazione di Sulla difficoltà di dire la verità, del 2014».
DS: «Questi spettacoli, anche se hanno debuttato in anni diversi, erano poeticamente molto intrecciati. Come le lucciole ha assunto varie forme intessendo diverse collaborazioni in scena; Sulla difficoltà invece si è strutturato subito come una lettura musicale con una sola attrice; minimale, ma poco tradizionale, con un lavoro approfondito sull’elettronica, un modo di portare la voce molto simile a un concerto, in qualche modo espressionista».
AT: «Lo spettacolo nasceva anche da un mio desiderio personale di lavorare più attorialmente, perché come dicevi i dispositivi scenici che portavamo prima non erano costruiti attorno all’attore ma al dispositivo visivo esterno».
DS: «Già in Come le lucciole la situazione cambia completamente: nei nostri primi tre spettacoli non c’è una parola detta dal vivo, da lì abbiamo invece iniziato a trasformare il gesto artistico in atto politico, rivolgendolo tutto verso l’altro».
AT: «Dopo due anni che lavoravamo insieme ci siamo chiesti quale fosse, come teatranti, il nostro ruolo nella società, una domanda enorme, che però poi ha generato, dopo i primi tre spettacoli, una poetica esteticamente non completamente diversa ma sicuramente più impegnata, e anche più esposta».
In questi 15 anni quali sono stati i momenti più critici e quelli più soddisfacenti?
DS: «I momenti di difficoltà sono costanti, in Italia c’è un sistema sfasciato e che sta nella miseria».
AT: «È veramente precario il ruolo che noi lavoratori dello spettacolo dal vivo abbiamo in Italia, un settore intero che è veramente da sempre in difficoltà, almeno da quando ci lavoro io. Però ci sono state tantissime cose positive e soddisfazioni, anche se più i progetti sono grandi e ambiziosi e più problematiche si generano. Facciamo fatica, ma credo che la questione riguardi un po’ tutti. Però l’anno scorso con Santa Giovanna dei Macelli abbiamo realizzato una produzione internazionale in quattro lingue, con sul palco i Laibach, la band che ascoltavo da adolescente. Questo direi che è il nostro risultato maggiore, la cosa più follemente ambiziosa che siamo riusciti a mettere insieme».

Sicuramente anche il vostro Polis Teatro Festival avrà dato grandi soddisfazioni.
AT: «Certamente, una rassegna nata con tre appuntamenti e che in pochi anni ci ha permesso di costruire una piccola struttura in cui gli eventi sono aumentati, gli spettatori sono cresciuti del 350 percento, il bilancio è aumentato di quasi dieci volte, quindi quando guardi a quello che siamo riusciti a fare in otto anni di questo festival sul territorio ti rendi conto di aver fatto in realtà cose incredibili».
DS: «Polis in pochi anni è diventato un festival di teatro contemporaneo internazionale, ogni anno dedicato a una determinata area geografica mediante un focus (nel 2026 sarà dedicato a Scandinavia e repubbliche baltiche). E per dare spazio anche alla creatività italiana abbiamo aderito a varie reti nazionali. Tutto è nato nel 2018, quando è uscito un bando per eventi culturali a Ravenna, e non avendo uno spazio in città ci siam detti che potevamo provare a creare un piccolo festival per la città, che poi un po’ per volta è cresciuto, in parallelo all’aggancio con i bandi di vari enti, fino arrivare al Ministero. C’è stata una crescita rapida perché abbiamo portato all’interno di Polis tutte le nostre relazioni internazionali con strutture e artisti. Così sono arrivati grandi nomi della scena contemporanea europea».
Mi rendo conto di non avervi mai chiesto da dove arriva il nome ErosAntEros.
AT: «Gioco di parole con le maiuscole. Eros e Anteros sono i due figli di Afrodite. Secondo la mitologia, quando Eros era piccolo e non cresceva mai, Afrodite diede vita ad Anteros, ovvero l’amore corrisposto, attraverso il quale Eros potè crescere. Invece, la seconda maiuscola fa sì che si giochi col prefisso ant, contro, quindi Eros versus Eros, perché crediamo che nel processo di creazione artistica della nostra compagnia sia la corrispondenza degli intenti – estetici, poetici e dei desideri – che lo scontro di idee e la dialettica siano fondamentali».
C’è un filo rosso che lega i vostri spettacoli, un messaggio che si ripropone?
AT: «Usare il teatro come un luogo e un tempo in cui una comunità possa ancora riflettere su se stessa e possibilmente immaginare di potersi modificare, usare il teatro come quel luogo in cui forse non si arriva a fare la rivoluzione ma ci si può esercitare a farla, o almeno esercitare la forza d’immaginazione. Per me questo luogo ancora oggi ha una potenza pazzesca, e quindi spero con i nostri lavori di riuscire a farlo».
Dopo aver sempre firmato i vostri spettacoli assieme, per questi 15 anni arrivano invece due nuove produzioni separate. Me le raccontate un po’?
AT: «Il mio lavoro è Materiale su Medea, di Heiner Müller, che è un po’ il testimone di Brecht, per cui, dopo due lavori brechtiani di dimensioni completamente diverse, ora c’è questo. Qui torno in scena completamente da sola ma in una configurazione speciale focalizzata sul suono, dove però al centro c’è ancora la parola poetico-politica all’estremo di Müller, che come drammaturgo ha frantumato la narrazione ai massimi livelli, rimanendo poi fermamente un autore politico. Mi sono messa alla prova su questa direzione ma rimanendo su un percorso già tracciato».
DS: «Lo spettacolo che porto in scena io, coprodotto da Teatri di Vita, è invece Quelli che si allontanano da Omelas, un racconto breve, che ho adattato per il teatro, di Ursula K. Le Guin, scrittrice di fantascienza ma in realtà femminista e anarchica, che ha scritto principalmente di distopie e utopie, in romanzi come I reietti dell’altro pianeta e La mano sinistra delle tenebre. Volevo parlare della Palestina, e ho iniziato l’anno scorso leggendo autrici palestinesi, poi mi sono imbattuto in questo racconto e ho pensato che fosse perfetto per parlare di oggi, della situazione attuale. Poi ho chiesto a Eva Robin’s di essere in scena, e ho pensato, insieme ai musicisti Gianluca Lo Presti e Giuseppe Lo Bue, di mettere sul palco una band dal vivo, che si chiama La Mano Sinistra».