Quando Bartali andava al Byron Nel 1951 nasceva il bar dei vitelloni

I ricordi della figlia del fondatore: «Più di una volta arrivò la polizia per gli scherzi dei ragazzi che oggi sono stimati professionisti»

La storia di Ravenna può essere tratteggiata ripercorrendo quella dei suoi bar storici.

Nel dopoguerra il centro della vita cittadina era il Belli, nella sua vecchia sede in via Ponte Marino (oggi è sotto i portici di via Guerrini): chiudeva all’alba e riapriva dopo poche ore, aveva uno stile elegante da caffetteria parigina. Era noto anche per il gioco d’azzardo, più di una volta fu chiuso perché si scommetteva su partite di mah-jong a mille lire al punto e a biliardo, accanto al quale c’era una piccola tribunetta a gradoni di legno per gli spettatori.

Gli anni ’60 furono gli anni del Byron, sotto i portici di quella che oggi è via Gardini. Era il bar dove si raccoglievano i “vitelloni”, studenti sfaccendati e geniali che facevano le ore piccole tra trovate, scherzi e bevute. Tra i tavolini del Byron dopo la mezzanotte nacquero quadri, poesie e idee. Come quella dell’avvocato Mario Salvagiani di ideare un festival musicale nella dimenticata Rocca Brancaleone.

«Erano anni molto divertenti per chi frequentava il bar, per noi sono stati però anche molto faticosi», racconta Ivana Subini, figlia di Arrigo, fondatore del Byron. «Mio padre lo aprì nel 1951 e lo chiamò con il nome del poeta inglese che visse e amò Ravenna. Era frequentato da scrittori, giornalisti, attori e artisti dell’accademia, che realizzarono il bancone in mosaico e che esponevano e vendevano quadri nel locale. Venivano spesso grandi sportivi come Bartali e Coppi, accompagnati da mio marito (Alfredo Cavezzali, ndr) ma anche tenori perché mio padre curava le opere in scena al teatro di Bagnacavallo. Una volte venne José Carreras, mi disse che aveva mal di gola e gli chiesi se volesse un foulard per ripararsi, lui mi rispose “no, grazie, fa troppo tenore”».

Il Byron era frequentato anche da professoresse che prendevano il tè nel pomeriggio e, dopo cena, da universitari: «I ragazzi che poi divennero stimati professionisti ne combinavano una tutte le sere». L’elenco degli aneddoti non ha fine: «Una volta misero del talco dentro i bomboloni, un’altra volta entrarono con un’auto dentro al bar, un’altra ancora impilarono tutti i tavoli per fare una piramide. Più di una volta arrivò la polizia, chiamata dai vicini. All’epoca avevo sempre paura per i disastri che potevano combinare ma a ricordarle adesso abbiamo fatto tante risate in quegli anni».

Il Byron esiste ancora: «Ma oggi il mondo è tutto cambiato, non credo abbia senso fare dei paragoni. Tornai al Byron anni dopo averlo venduto, c’era ancora il ritratto di Lord Byron alla parete e un signore che prendeva il caffé chiese chi fosse al nuovo barista e lui gli rispose “Credo fosse il vecchio proprietario del bar”».

Il ’68 e gli anni ’70 furono il periodo del Mosaico, un ambiente ribelle tra il bar e la discoteca in cui si radunava la gioventù rivoluzionaria e fricchettona della città in un arco politico che andava da Lotta Continua al Manifesto frequentato da personaggi come l’artista Marcello Landi, l’editore Danilo Montanari e molti altri che sarebbero poi diventati i volti noti della cultura cittadina degli anni a venire.

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