Concessioni balneari, il Governo non decide e i Comuni fanno da sé

Verso la sanzione europea. Il rischio è un’anarchia che potrebbe anche portare al blocco del settore

Spiaggia Zanni

Foto di Adriano Zanni

Gli ultimi mesi sono stati un periodo piuttosto burrascoso per il tema delle concessioni balneari. Il governo Meloni non ha ancora stabilito le regole per rinnovare i titoli scaduti il 31 dicembre 2023, ma quel che è certo è che la prossima estate – almeno per quanto riguarda Ravenna e Cervia – rivedremo ancora gli storici gestori a condurre i loro stabilimenti. Entrambi i Comuni hanno infatti deciso di avvalersi della proroga al 31 dicembre 2024 prevista dalla legge 118/2022 del governo Draghi, nel caso in cui un’amministrazione fosse impossibilitata a effettuare le gare entro lo scorso anno. Una scelta fatta da tutti i sindaci romagnoli e dalla stragrande maggioranza dei loro colleghi nel resto d’Italia, proprio perché mancano le regole nazionali con cui scrivere i bandi, che avrebbero dovuto essere contenute in un decreto attuativo da approvare entro febbraio 2023, ma che non è mai stato varato dal governo Meloni.

Da tredici anni, le concessioni balneari sono prive di una legge che definisca le modalità per rinnovarle nel rispetto della direttiva europea Bolkestein, ovvero senza alcuna forma di automatismo agli stessi titolari, come invece ha sempre fatto l’Italia. L’esecutivo a guida centrodestra ha sempre dichiarato di non essere d’accordo con le gare previste dalla Bolkestein e di voler tutelare la continuità dei concessionari storici. Per questo, la scorsa estate ha istituito un tavolo interministeriale per lavorare a una mappatura delle coste italiane che ha dichiarato come solo il 33% dei litorali sia occupato da concessioni e il 67% sia libero, al netto delle aree protette e del demanio portuale e militare. La tesi del governo è che sia possibile garantire la concorrenza richiesta dalla Bolkestein dando nuove concessioni sul demanio libero, per poter avviare nuove imprese senza toccare quelle esistenti: questo anche perché gli articoli 11 e 12 della direttiva prevedono le gare solo in caso di “scarsità della risorsa naturale”, che secondo i dati della mappatura non sussisterebbe. Tuttavia, il lavoro effettuato dal governo è ad oggi incompleto: sia perché non è stato calcolato il demanio lacuale e fluviale, dove in alcune regioni è possibile avviare imprese balneari (pensiamo per esempio agli stabilimenti sul lago di Garda o lungo il fiume Po), sia perché la percentuale di coste libere non distingue quelle effettivamente concedibili e quelle, invece, dove costruire uno stabilimento balneare sarebbe impossibile (come le scogliere a strapiombo sul mare, nemmeno raggiunte da una strada). Ma soprattutto, il principio di evitare le gare grazie all’abbondanza di risorsa andrebbe declinato in una legge, ed è proprio questo il punto su cui il governo pare in difficoltà, avendo fatto promesse che forse non sa come mantenere.

Lo scenario è stato ulteriormente complicato dall’invio del parere motivato da parte della Commissione europea, giunto lo scorso novembre: si tratta del secondo step per l’avvio di una procedura di infrazione, dopo la lettera di messa in mora recapitata a dicembre 2020. Al governo Meloni sono stati dati due mesi di tempo per rispondere, ovvero fino al 16 gennaio, e se le sue richieste non saranno esaudite, Bruxelles potrà valutare la sanzione da comminare all’Italia.

Inoltre, il 2 gennaio sulla questione è intervenuto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che nell’esprimere perplessità sulla proroga decisa dal governo Meloni alle concessioni per il commercio ambulante (anch’esse colpite dalla Bolkestein), ha sottolineato l’urgenza di completare il quadro regolatorio per il rinnovo delle concessioni balneari. Difatti, dopo più di un anno dal suo insediamento, il governo non ha fatto nulla di concreto per intervenire sulla materia in modo definitivo.

Ad oggi l’unica certezza è la legge 118/2022 approvata da Draghi, che per la prima volta si è adeguato al diritto europeo sulle concessioni balneari, imponendo la scadenza dei titoli il 31 dicembre 2023 e le gare entro il 31 dicembre 2024. Dai banchi dell’opposizione e durante la campagna elettorale, il partito di Giorgia Meloni si era dichiarato contrario a questa norma, mentre una volta al governo non ha né mantenuto la sua contrarietà (dal momento che non ha abrogato la legge), né ha accettato di completarne il disegno (poiché non ha emanato i decreti attuativi). La conseguenza di questa inerzia è una situazione di impasse che vede in difficoltà sia gli attuali concessionari, privi di certezze sul futuro delle loro imprese, sia gli imprenditori interessati a entrare nel mercato, sia soprattutto le amministrazioni locali, che si sono trovate a dover decidere in autonomia il da farsi sui titoli in scadenza. La maggior parte di queste, come detto, si è avvalsa dell’anno di proroga finalizzato a espletare le procedure selettive per riassegnare i titoli, ma in assenza di direttive nazionali, ogni Comune sta scrivendo le regole per conto proprio. In Romagna, molte amministrazioni hanno già dato mandato ai funzionari di iniziare a scrivere i bandi, che sono procedure lunghe e complesse. Ma senza una legge-quadro statale, il rischio è quello di un’anarchia e disparità di regole tra diverse località, che potrebbero determinare molti contenziosi e il blocco del settore. D’altronde, però, le concessioni sono ormai scadute e non si può fare altro che decidere come rinnovarle: ciò significa stabilire quanto dureranno i nuovi titoli, come determinare la professionalità e l’esperienza richiesta ai partecipanti, quali saranno i criteri per calcolare il valore delle aziende e gli indennizzi in caso di passaggio della concessione. Poiché il problema non è più se fare o non fare le gare, bensì come farle. E su questo, nessun politico ha mai avuto il coraggio di decidere.

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