giovedì
19 Giugno 2025
l'intervista

Trancossi (Cgil): «Il referendum serve per uniformare i diritti dei lavoratori»

La segretaria provinciale del sindacato, che ha lanciato l’iniziativa popolare, amplia le riflessioni sul settore: «Il tema dei salari è centrale»

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Manuela Trancossi Cgil
Manuela Trancossi (al centro) dopo l’elezione a segretaria provinciale

Nell’assemblea generale del 26 marzo 2024, la Cgil ha approvato l’avvio di una campagna referendaria su quattro quesiti in materia di lavoro (Qui le informazioni generali sui quesiti del referendum in programma l’8 e il 9 giugno, che in tutto sono cinque). E il 25 aprile di un anno fa cominciò la raccolta firme (arrivata a quattro milioni di adesioni, anche con firma digitale, con 45.600 adesioni su carta raccolte in provincia di Ravenna) accompagnata dallo slogan “Per il lavoro stabile, dignitoso, tutelato e sicuro”, con un aggettivo collegato a ogni quesito.

Alla campagna referendaria ha partecipato anche la Cgil di Ravenna, di cui Manuela Trancossi è segretaria generale da gennaio 2024.

Segretaria, è un referendum e quindi la prima questione sul tavolo è la rincorsa al quorum. Come andrà?
«Non sarà facile e lo sappiamo fin da quando abbiamo iniziato la raccolta delle firme. Ma in questa iniziativa c’è anche una volontà di smuovere la partecipazione per alzare l’attenzione sul tema del lavoro. La concomitanza con eventuali ballottaggi potrebbe essere un traino, ma sarebbe stato meglio con il primo turno».

Ipotizziamo che si arrivi al quorum e vincano i sì. Cosa cambierà dal giorno dopo per quanto riguarda i quesiti legati al Jobs Act?
«Il primo cambiamento sarà una uniformità tra tutti i lavoratori in caso di licenziamenti illegittimi: tutti avranno le stesse opportunità, mentre oggi chi è stato assunto dopo il 2015 non ha gli stessi diritti di chi è stato assunto prima. Analoga cosa per quanto riguarda i lavoratori delle piccole aziende che avranno maggiore equità rispetto a oggi. Spesso si pensa che le piccole aziende siano senza mezzi per i risarcimenti, ma i dati dicono che le cosiddette piccole aziende spesso hanno riserve economiche molto maggiori di grandi aziende».

Se sarà abrogata la norma sui licenziamenti nelle imprese maggiori vorrà dire che tornerà in vigore la legge Fornero. Gli economisti scettici sul “sì” sottolineano che si avrebbe una riduzione del limite di indennizzo per i licenziamenti ingiustificati a 24 mensilità, mentre oggi si applica il limite di 36 mensilità previsto dal decreto legislativo del 2015.
«La nostra volontà sarebbe quella di superare anche la legge Fornero, ma non si può fare tutto in un colpo solo. Per un referendum siamo partiti dalla norma più recente, il passo successivo sarà ragionare sulla Fornero».

Una delle schede del referendum è incentrata sul tema della sicurezza dei lavoratori. Attribuire più responsabilità ai committenti è la via giusta per alzare le tutele?
«Nel settore del pubblico c’è già un iter che prevede maggiori responsabilità per le stazioni appaltanti. La stessa cosa non avviene nel privato e la catena di appalti e subappalti allenta il rispetto delle norme. Quando si appalta si comprimono i costi e questo spesso significa meno formazione o formazione non idonea. Se un’azienda si troverà chiamata a rispondere anche di incidenti accaduti in aziende cui ha appaltato servizi, non potrà che aumentare l’attenzione».

Perché si dice spesso che la catena di appalti a cascata allenta la sicurezza?
«Perché accade che nessuno controlla nessuno. Si ritrovano più aziende a fare lavori diversi nello stesso sito senza che ci sia un coordinamento e si finisce per non sapere quello che fanno gli altri».

C’è qualche esempio recente sul nostro territorio in cui un infortunio può essere connesso alla superficialità di controllo nella catena di appalti?
«Abbiamo avuto casi in cui c’erano lavoratori impiegati in mansioni diverse dai contratti con cui erano inquadrati. Sembra un dettaglio, ma non lo è, perché a ogni contratto corrisponde una determinata formazione. Se si finisce a fare lavori diversi dalla formazione avuta, succede che mancano le conoscenze dei pericoli di quel posto di lavoro».

Il quesito sulle condizioni sufficienti per sottoscrivere contratti a tempo determinato pone l’attenzione sulla qualità dei contratti.
«Oggi, di fatto, c’è la possibilità di assumere e riassumere i lavoratori con contratti a termine e accade soprattutto con donne e giovani. Questo riduce le prospettive di stabilità».

In provincia la quota di contratti a tempo determinato, sul totale di nuovi rapporti attivati, è sostanzialmente stabile.
«È vero che Ravenna ha un tessuto produttivo che ancora regge, ma aumentano i contratti poveri. Moltissimi sono part-time».

Gli argomenti dei quesiti sono le priorità per il mondo del lavoro oggi?
«Deve essere chiaro che questo referendum non risolverà tutti i problemi, sappiamo bene che le questioni sono anche molte altre. I quattro referendum e i numeri della raccolta firme danno un segnale politico, dicono che le persone vogliono mettere mano al tema del lavoro. Una volta passata la tornata referendaria bisognerà affrontare un dibattito con il governo sulle altre questioni incombenti».

I salari sono il tema cruciale di tutti i ragionamenti?
«Siamo fermi al palo, in fondo alle graduatorie in Europa. Ci sarebbe bisogno di una grande operazione salariale nel Paese. Ma ci sarebbe anche bisogno di tornare a investire da parte dello Stato, perché se anche si riescono a rinnovare contratti nazionali con aumenti salariali ma poi rette degli asili e servizi vari costano sempre di più allora è come non aver fatto niente».

In generale come è lo stato di salute del lavoro nel nostro territorio?
«Abbiamo un tessuto economico che guarda molto all’estero e questo non può che essere un momento critico con le vicende legate ai dazi. Le prospettive future non sono incoraggianti per chi esporta. Poi si vedono difficoltà nel manifatturiero che rallenta».

Il settore che maggiormente attira l’attenzione del sindacato?
«La chimica. Le decisioni di Eni per gli stabilimenti del sud Italia non possono che avere risvolti anche per Ravenna. I fatti dicono che Eni ha deciso di disinvestire in Italia: se si dismette la produzione di cracking, che è il prodotto utilizzato a Ravenna, vorrà dire acquistare dall’estero. Con aumento di costi e di inquinamento per il trasporto. Ma la dismissione della chimica ha una conseguenza soprattutto per l’indotto. Gli occupati diretti di Eni in qualche modo possono essere ricollocati, non vale lo stesso per le aziende contoterziste».

Nel tema della chimica così come sul fronte del referendum, Cgil si è ritrovata a fare battaglie in solitaria. Come mai Cisl e Uil non vi hanno affiancato?
«Non posso rispondere per le azioni di altri. Posso dire che sono un po’ sorpresa perché alcuni temi dei referendum sono gli stessi delle piattaforme unitarie che avevamo sottoscritto e per cui in passato abbiamo anche già manifestato insieme. Anche il Primo Maggio torneremo in piazza unitariamente. La Uil ha deciso di non stare nei comitati, ma ha dato l’indicazione di andare a votare e votare sì su due quesiti e libertà di espressione sugli altri».

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