«Dare libertà al vino è il modo migliore per esprimere il territorio, il vitigno e l’annata»

Durante un pomeriggio di degustazioni e assaggi gastronomici che serberò nella memoria per lungo tempo, ho avuto modo di conoscere Andrea Bragagni, vignaiolo in quel di Fognano (Brisighella) la cui ospitalità è pari solo all’originalità dei suoi vini, tra i quali spiccano varietà autoctone del territorio come Albana, Sangiovese, Trebbiano e Famoso.
Andrea, qual è la tua storia?
«Sono nato a Faenza ma la mia famiglia è del Verghereto, ho abitato a Lugo, ma la maggior parte della mia vita l’ho trascorsa in collina, la terra piana non mi è mai piaciuta. Sono arrivato a Fognano nel 1998, dopo un paio d’anni che mi guardavo intorno, sulla fascia appenninica tra Imola e Cesena, per trovare un luogo dove fare vino, che era un tarlo da quando avevo 14- 15 anni, non saprei neanche dirti da dover arrivasse, perché la mia non è una famiglia di vignaioli o agricoltori. Fino a 27 anni ho lavorato da dipendente, in vari tipi di attività, anche in campagna, ma non ho mai trovato il lavoro che mi soddisfacesse davvero, e ogni tanto rispuntava questa cosa della vigna. A un certo punto mi son detto che se volevo provare a realizzare que- sto desiderio dovevo muovermi, perché i tempi sono lunghi per un progetto così».
I primi vini quando arrivano?
«La mia prima bottiglia con etichetta è uscita nel 2003, perché all’inizio c’era solo una vigna di Sangiovese e l’ho vinificato più per capire come si faceva che altro. Dopo le prime prove, nel 1999 e 2000 ho iniziato a impiantare vigneti, che poi purtroppo ho dovuto estirpare in questi ultimi anni a causa della flavescenza e del mal dell’esca. Sono un autodidatta e ho sempre lavorato di pancia più che con un progetto a tavolino. Ad esempio, con le macerazioni inizialmente seguivo le tempistiche tradizionali, poi negli anni mi sono accorto che quasi sempre era meglio fermarsi prima e ho iniziato ad andar sempre più a naso, sebbene ragionando, assaggiando il prodotto sia in macerazione che in affinamento, in cantina, e anche il momento di imbottigliare lo scelgo assaggiando il vino, arriva un punto in cui capisci che è ora».
In questo momento com’è composto il vigneto?
«Ci sarebbero tre ettari di vitato su terreni di arenaria e argilla, ma l’anno scorso è franata una parte di Sangiovese e l’ho dovuta smontare, poi lo ripianterò quest’altr’anno. Ho avuto problemi anche in una vigna di Albana, appunto per le malattie, e l’ho demolita completamente. Il problema è che quando ti si ammalano le piante poi l’insetto vettore sposta la malattia in tutta la vigna, quindi essendo abbastanza isolato provo a eliminare le piante malate per cercare di non diffonderli. Certo, ci sono dei prodotti per eliminare anche l’insetto vettore ma è come usare il napalm, figuriamoci, io la chimica non l’ho mai usata».
Qual è la tua filosofia enoica?
«Totalmente naturale. Non concimo nemmeno in nessun modo, la pianta lavora sì lentamente all’inizio, ma va molto in profondità con le radici e dopo ti salvi dalla siccità. Se la nutri, la pianta rimane in superficie perché trova subito nutrimento. In cantina poi meno intrusioni fai meno danni fai, poi ovvio che ci devi essere, se no l’uva non diventa vino. La mano gliela devi mettere ma sempre molto delicatamente. Faccio una macerazione classica, le fermentazioni sono spontanee, qualche rimontaggio, se vedo che i lieviti perdono forza, poi una prima fase in acciaio e quindi cemento. Non uso legno. Con i difetti non sono molto permissivo, certe annate non escono nemmeno, gli errori bisogna stare attenti a non farli. Il vino secondo me deve essere lasciato il più libero possibile, è il modo migliore per esprimere il territorio, il vitigno e l’annata».
Mi racconti un po’ i tuoi vini?
«C’è il Rio Bagno, sia bianco che rosso, che è l’etichetta di partenza, un blend. Il rosso è Sangiovese, Merlot e un po’ di Albana, il bianco ha una base di Trebbiano, poi Albana e un po’ di Famoso. Ma entrambi cambiano in base all’annata, sono fatti con le uve che ho e che non vanno a finire negli altri vini. Ad esempio, nel Rio Bagno bianco 2022 il 70% è trebbiano, poi Famoso, e un minimo di albana. La 2024 invece è quasi 50 e 50 Trebbiano e Famoso. Il Braghaus è il mio Sangiovese, ed esce nelle annate in cui può essere vinificato in purezza perché in grado di dare dignità all’annata. Se non sono convinto, salto. Il Rigogolo è Albana in purezza, il Barbagianna è Trebbiano e Famoso. La Bolla di Gustavo è un rifermentato da Trebbiano di pianura che arriva dalle vigne dello zio di mia moglie, però l’annata ‘24 è diventato Trebbiano e Famoso. Ogni tanto poi ci sono uscite estemporanee. Complessivamente produco 8/9.000 bottiglie l’anno».
So che l’alluvione del 2023 ti ha dato parecchi problemi ma che è stata anche un’occasione di riflessione.
«Già. L’anno scorso non abbiamo raccolto un singolo grappolo d’uva a causa delle frane. Però trovarmi nella condizione di non avere uva mi ha fatto guardare intorno, ho acquistato uve da altre parti e muovendomi in questo modo mi son chiesto se fossi in grado di saper scegliere un territorio a naso, ossia fare il lavoro che in Francia chiamano négociant. Si tratta di figure che non hanno vigne ma selezionano le aziende dove acquistare le uve. Poi vinificano e lo mettono in commercio. Ad esempio, nel 2023 ho fatto un Pinot bianco in purezza raccolto sopra Zattaglia e un Montuni di Bando di Ferrara. Nel 2024 un Trebbiano di Rio Chiè e un Verdicchio preso a Cupramontana, nelle Marche. L’idea quindi, prima o poi, è quella di tornare a Verghereto, realizzare una micro-cantina e vinificare uve acquisite dove mi porta l’istinto».
A Ravenna dove si possono trovare i tuoi vini?
«Alla piadineria Farcia e da Il Campovinato».
In degustazione: Sangiovese Braghaus 2019 e Albana Rigogolo 2020
Tra i vini di Bragagni, onestamente tutti di caratura superiore, ho scelto di dire due parole in più sul Rigogolo 2020, Albana in purezza che arriva solo in bottiglie magnum, e sul Sangiovese Braghaus 2019. Il Rigogolo è l’Albana che ho sempre sognato, libera di esprimere tutta la sua enorme personalità e specchio fedele di un terroir, quello brisighellese, dal potenziale pazzesco. Ecco allora un bellissimo color oro antico e un naso puro e fresco che ci dice pesca e agrumi, fiori bianchi e una nota affumicata. E ci ho sentito anche del carciofo. In bocca è una sorpresa, sapidità divertentissima, un’acidità che regge il mondo, tanto che a tratti sembra una birra Geuze. Tannino valorizzato e persistenza infinita. Una meraviglia.
Braghaus è invece un Sangiovese sul quale si potrebbero fare più o meno le riflessioni dell’Albana. Un vino dalle spalle larghissime capace di lunghe tenute, un Sangiovese in purezza che ti parla col cuore in mano per riportarti in un mondo dove il vino sa di vino. Bouquet amplissimo (ciliegia matura, prugna, erbe aromatiche, cuoio, pepe nero), al palato fa risorgere i morti, con una struttura granitica e una spalla acida calibratissima a sorreggere le morbidezze.