martedì
24 Giugno 2025
L'INTERVISTA

Valle delle Lepri, tra tradizione e innovazione. «Il vino deve emozionare»

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L’azienda sulle colline di Coriano, nel Riminese, ha da sempre una vocazione al rispetto delle proprie vigne e dal 2019 adotta tecniche di vinificazione artigianale

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Alessandro, Luca e Silvano Cecchini

L’azienda Valle delle Lepri sorge ai piedi di una dolce e bellissima collina vitata a Coriano, nel Riminese. Un luogo che evoca vino a gran voce, dove Luca Cecchini, insieme al fratello Alessandro, conduce l’azienda dopo che il padre Silvano l’aveva a sua volta presa in mano negli anni ‘80 dal padre Battista. È Luca a raccontarci tutto di Valle delle Lepri e dei suoi vini.
Il colpo d’occhio della collina è splendido, come si compone il vigneto?
«Ci sono circa otto ettari di vigne, divisi in varie parcelle, e uno di oliveto, il terreno è molto argilloso. Ormai siamo metà e metà tra uve bianche e rosse, nel tempo abbiamo capito che Rimini può essere una bella zona da bianchi, perché comunque qui siamo più simili alla fascia costiera a sud che all’entroterra romagnolo, e quindi ci abbiamo puntato molto, principalmente Rebola (Grechetto gentile) e Pagadebit (Bombino bianco). Abbiamo anche un po’ di Chardonnay, Viognier e Malvasia, con cui facciamo il nostro bianco base. Nei rossi invece tanto Sangiovese – due cloni, F9 e Rlb –, un po’ di internazionali, come Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Merlot, del ciliegiolo e un po’ di Pinot nero. Questi vanno tutti nei vini base con le uve locali. Le vigne più vecchie hanno 22-23 anni, tranne quella del Pagadebit, che è del 1987, e un vignetino ad alberello che è una sorta di cru. Complessivamente facciamo tra le 40 e le 50mila bottiglie».
Qual è la storia di Valle delle Lepri?
«Mio nonno Battista era mezzadro qua, poi è riuscito ad acquistare l’azienda, che aveva un po’ di tutto, come si faceva una volta: grano, animali. Poi mio babbo ha fatto un po’ di frutteto ma non si poteva competere con le pianure più a nord e ha provato a fare vino. Nel 1996 son o uscite le prime bottiglie, ma come Cecchini, non Valle delle Lepri, nome che è arrivato attorno al 2000».
Qual è il vostro approccio alla vigna?
«Siamo certificati bio dal 1992, anche se allora non eravamo ancora focalizzati sul vigneto, mio babbo produceva le albicocche per gli omogeneizzati della Plasmon, poi pian piano ci siam specializzati in viticoltura. Io ho studiato Viticoltura ed Enologia a Cesena e intanto aiutavo qua, poi mi son reso conto che non mi bastava più quello che stavamo facendo; eravamo sì biologici ma comunque rimanevamo un’azienda convenzionale in cantina, quindi lieviti selezionati, filtrazioni, chiarifiche, microfiltrazioni. All’università però mi sono reso conto che i vini che mi piacevano di più erano quelli naturali o biodinamici, insomma artigianali. Così ho deciso che bisognava cambiare le cose. Dapprima lentamente, poi, quando mi son reso conto che ci avrei messo troppo, ci siamo buttati e nel 2019 abbiamo cambiato tutto: sovescio, pacciamatura, preparati biodinamici, raccolta dell’uva a mano, cerchiamo di non cimare le piante».
E in cantina?
«Vinifichiamo in acciaio a temperatura controllata, perché i tini sono abbastanza grandi e le temperature salirebbero troppo, cerchiamo distare sui 28-30 gradi per i rossi e 25 sui bianchi. Abbiamo preso un po’ di cemento nel corso degli anni, vasche che abbiamo restaurato, le vinificazioni che ci interessano di più le facciamo lì dentro, sta diventando il nostro pallino. Stiamo un po’ abbandonando il legno nel rosso, il cemento funziona molto bene, i vini sono più freschi. Le fermentazioni sono spontanee, quasi sempre in assenza di solforosa, anche se poi la aggiungiamo dopo la malolattica; niente filtrazioni, microfiltrazioni e chiarifiche, e così via. Il primo anno è stato difficile, in pratica devi re-imparare a fare il vino, cambia tutto, a partire dalle cinetiche di fermentazione, bisogna stare molto sul pezzo».
La vocazione del vignaiolo l’hai sempre avuta?
«Non sapevo se avrei voluto fare il vignaiolo, ma come ti dicevo sono sempre stato qui, fin da piccolo. Però c’era anche la scuola, gli amici. Ho fatto il liceo scientifico per capire se potessero esserci altre passioni ma alla fine ho deciso di iscrivermi all’università e lì mi son reso conto che era quello che volevo fare. Ma lo volevo fare bene. Se dovevo essere un vignaiolo diciamo “industriale”, per il business, avrei lasciato perdere. Affacciarsi al mercato con questi vini però non è semplice, all’inizio il passaggio al naturale è stato complesso, i prezzi per forza sono aumentati, i clienti storici erano da convincere. I vini fatti artigianalmente sono però talmente più complessi ed emozionanti che non potrei fare altro».
Quanti vini fate? Me li illustri un po’?
«Troppi, una dozzina, ogni volta che ci viene in mente un’idea la facciamo! Mi focalizzerei sui quattro più particolari, Ca’ Righetti, Terramare, OX e Avrai. Tutti hanno sull’etichetta la dicitura “studio”, rispettivamente studio sul tempo, sulla buccia, sull’ossigeno e sul grappolo intero, sono i nostri vini sperimentali, diciamo, poche bottiglie, ci interessa vedere dove si può arrivare. Ca’ Righetti è come si chiamava il podere ai tempi di mio nonno, è una Rebola da un appezzamento dove prima c’era Ancellotta, poi sovrainnestata, molto particolare, facciamo una maturazione di 30 mesi in cemento sulle fecce. Terramare è invece Pagadebit da vigna vecchia e vinificato in anfora georgiana, nella quale sosta per circa 6 mesi col 30% delle bucce. OX, sempre Rebola, è un ossidativo realizzato con metodo perpetuo dalle annate ‘20, ‘21 e ‘22, con botte scolma. Per me è molto interessante, è la prima edizione, ogni anno si aggiungerà un’annata. Avrai è Sangiovese, usiamo il grappolo intero, per una settimana lo trattiamo come fermentazione semi-carbonica, diamo aria, poi finisce la fermentazione e la maturazione in cemento e va in bottiglia. È un vino più gioioso, con meno tannino e più profumazioni. Nei rossi stiamo cercando di andare sempre un po’ in sottrazione, anche se qui significa comunque avere vini muscolari, perché siamo bassi in quota, è molto caldo, ci son le argille, quindi polpa e tannini ci sono. Poi vorrei menzionare il Batèst, dedicato a mio nonno. Uva Sangiovese, l’annata ‘21 è bellissima, abbiamo spinto sulle macerazioni arrivando a 40 giorni, poi 12 mesi in cemento naturale non vetrificato e altri sei mesi in cemento».
I vostri vini dove si possono assaggiare nei locali di Ravenna?
«Alla Ca’ de Ven, anche se non tutti».

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In assaggio: Terramare, Pagadebit fuori dagli schemi Batèst, fine ed equilibrato
Difficile scegliere il preferito tra i vini di Valle delle Lepri, dunque ho optato per un bianco che ha tutte le caratteristiche che prediligo e un rosso che definire impeccabile è riduttivo. Il Terramare 2023 è un Rubicone Igp Bombino (Pagadebit) che fa parte della serie di “studi” dell’azienda, nello specifico “studio sulla buccia”, e infatti la fermentazione e la maturazione sono effettuate in anfora georgiana per sei mesi a contatto con le proprie bucce. Il risultato è un vino verticale e molto elegante, con note di agrumi (pompelmo su tutti) e minerali, dotato di una sapidità importante e di una bella persistenza. Il nome arriva dall’omonima vigna da cui proviene, dalla cui sommità si vede il mare Adriatico. Il Batèst 2021 è invece un Dop Romagna Sangiovese Superiore che arriva dal cru più importante della tenuta, con allevamento ad alberello. Qui il naso ci dice violetta e frutti di bosco, ma anche sentori iodati che coerentemente introducono a una apprezzabile freschezza, in grado di dare un bell’equilibrio a un vino dalla struttura solidissima. Viene prodotto solo nelle annate migliori.

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