La professoressa Granata del Politecnico di Milano suggerisce un nuovo patto sociale tra esperti e cittadini per disegnare spazi che affrontino il cambiamento climatico e facilitino la convivenza: «Aiuta a evitare la detonazione dei giovani»

«Per le scelte urbanistiche di oggi che andranno a disegnare le città del futuro non va considerata solo la soddisfazione di chi usa Instagram. L’architettura ha bisogno del contributo delle neuroscienze e delle scienze naturali per la salute e il benessere di chi abita le città». Elena Granata è docente di Urbanistica al Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di economia civile (Sec) di Firenze. La professoressa sarà a Lugo il 20 settembre dove terrà una conferenza intitolata “Città, pensiero pratico e agire ecologico” organizzata dall’Ordine degli architetti di Ravenna e dall’ente di formazione Pro Viaggi Architettura.
Professoressa, come dovremmo immaginare le città del futuro?
«Devono essere fatte di spazi che facilitino il loro uso. Le città devono essere vissute. Allontanare le persone che si sedevano sui monumenti per proteggere i monumenti ci ha fatto perdere confidenza con lo spazio urbano. Si potrebbe dire che dovremmo avere città “sedibili e bivaccabili”, cioè dove ci siano luoghi in cui sedersi e dove trascorrere tempo. Possono essere luoghi attrezzati per lo sport o semplici piazze. All’estero, per esempio in Francia o in Spagna, questo accade molto di più: è normale portarsi da bere da casa e sedersi a terra a trascorrere tempo chiacchierando. Dobbiamo risvegliarci, le città sono prima di tutto luoghi di vita, poi anche di commercio e di ordine pubblico».
È una visione che assomiglia a quella tanto pronosticata ai tempi dei lockdown per il Covid. A distanza di quattro anni sono state mantenute quelle ambizioni di rinnovamento?
«Ci siamo dimenticati presto di quell’idea di città perché abbiamo ripreso la vita come se fosse tornata ordinaria. E invece le città possono cercare un grado di straordinarietà. La città tanto sognata nel lockdown non è altro che una città più attenta a salute pubblica che non sta dentro agli ospedali ma sta negli stili di vita. Ci mancava la natura di prossimità e avremmo voluto passare più tempo nello spazio pubblico. Una città più gratuita e più fruibile: penso al confronto fra il nostro mare dove le spiagge libere sono la minima parte e il fiume di Zurigo che è stato attrezzato per la balneazione gratuita e quindi in città si fa il bagno».
L’urbanista di oggi ha bisogno di saperi che un tempo non erano necessari?
«Le nozioni di architettura non bastano più. Oggi un urbanista ha bisogno della biologia perché deve conoscere quali sono le specie arboree più consigliabili per assorbire anidride carbonica e reggere al cambiamento climatico. E poi le neuroscienze ci spiegano che il benessere passa da tutti i sensi, per esempio l’olfatto: i grandi brand questo lo sanno benissimo e ci prendono per il naso appena entriamo nei loro negozi. E poi c’è bisogno di esercitare l’immaginazione per cambiare le regole del passato, ma questo passa dalla scuola».
Il cambiamento climatico è un fattore influente nella costruzione delle città?
«La pianura Padana sarà sottoposta a desertificazione. Allora chiediamoci cosa pianto oggi per resistere? Forse è il caso di guardare a paesaggi che già fanno i conti con queste situazioni, forse è il caso di guardare a Marrakech. Fare una piazza tutta di pietra oggi è un autogol climatico, invece se semini specie adatte a climi torridi fai un servizio ai cittadini che verranno. Ma sono ragionamenti che trovano resistenza perché veniamo da un’idea di bellezza estetica legata a certi materiali: non abbandoniamo la pietra e il travertino e invece ci sono legno, sterro e prati che in altri città europee sono più diffusi».
Le cronache recenti ci restituiscono un’immagine degli spazi urbani che sempre più spesso sono teatro di episodi di violenza, soprattutto giovanile. Il modo di concepire le città può in qualche modo contribuire ad arginare quei fenomeni?
«Dal Covid in poi si sono contratti gli spazi aperti ai giovani perché le città, con piazze governate dal commercio, hanno cominciato a preferirli come consumatori: puoi bere in piazza, ma al tavolo di un bar e non sul sagrato di una cattedrale. La deriva securitaria, di bon ton, di ordine ha fatto sì che giovani, immigrati, senza fissa dimora e anche turisti non siano particolarmente graditi nello spazio pubblico. Ma a furia di togliere spazi ospitali e interdire la seduta gratuita, a furia di rendere sgradevole la presenza dei giovani poi i giovani detonano. Per questo la città gratuita, dello sport, della balneazione e del tempo libero diventa una risposta anche a quei comportamenti di disagio. Più si privatizza lo spazio pubblico, più i controlli sono rigidi, più gli spazi sono da contendere e più i giovani detonano nell’atto di teppismo. Ci si lamenta che i giovani bevono. Chiedo io: cos’altro offrono le città come alternativa?»
A chi spetta la progettazione delle città?
«Gli esperti e i tecnici hanno competenze e sapere, ma da soli non possono attuare il cambiamento. Perché è qualcosa che riguarda le aziende, riguarda il modo in cui facciamo agricoltura, riguarda i modelli di consumo dell’energia. La nuova città chiama in causa tutta la comunità. È come se dovessimo ridefinire i compiti di tutti, c’è un nuovo patto sociale in cui ciascuno fa il suo, anche il cittadino. Per usare uno slogan direi che la città è troppo importante per lasciarla solo agli esperti».
Il cittadino potrebbe obiettare che già paga le tasse e questo dovrebbe bastare per tutte le manutenzioni e interventi necessari per i cambiamenti…
«È un’obiezione condivisibile. Però allora ai cittadini va chiesto di alzare la voce per essere ascoltati, di protestare, di chiamare i politici al rispetto degli impegni perché oggi i cambiamenti climatici ci sfidano quasi quotidianamente, la normalità dello scorrere delle stagioni è diventata un potenziale pericolo per la vita dei cittadini».
Quando i cittadini chiedono di essere ascoltati di solito viene impostato un percorso di partecipazione dal basso che non vincola e viene anche ignorato dai decisori nel momento definitivo.
«Finora ci siamo accontentati di una finta partecipazione che andava bene ai cittadini partecipanti e agli amministratori. Ma i tempi sono cambiati, non è più concessa la recita partecipativa perché la gestione del nuovo scenario richiede un patto di comunità».
Quale potrebbe essere un risultato di questo nuovo patto da costruire?
«Il mio suggerimento è che tutti gli ottomila Comuni italiani elaborino il piano clima. Al momento non ci sono obblighi di legge, ma è uno strumento per gestire gli effetti negativi del cambiamento climatico sul territorio e dovrebbe venire come priorità davanti a tutte le altre strategie di pianificazione. Lo Stato ha dato delle linee guida molto blande e questo lascia spazio all’iniziativa di tanti esperti in questo campo che possono sperimentare un nuovo approccio».