Il più internazionale tra i musicisti romagnoli protagonista al Ravenna Festival

Chitarrista (Sacri Cuori, Sea of Cortez, Don Antonio, collaborazioni con Dan Stuart, Hugo Race, Howe Gelb, Marc Ribot, Robyn Hitchcock e John Parish, tra i tanti), produttore, giornalista, scrittore, autore di musiche per il cinema e la tv, organizzatore di festival (l’indimenticato “Strade Blu”, “Terra Mossa”), il faentino Antonio Gramentieri è sicuramente il “più internazionale fra i musicisti romagnoli di oggi”. E lo sa anche il Ravenna Festival, che lo ha voluto per due date, la prima andata in scena il 10 maggio, insieme a Vinicio Capossela, l’altra oggi, 5 luglio, quando aprirà la serata dei Calexico a Palazzo San Giacomo.
Antonio, due presenze al Ravenna Festival nella stessa edizione, non male.
«Probabilmente è grazie a quel Don, alla spagnola, che ho iniziato a usare a 45 anni, un prefisso ironico sul fatto che quando uno è da abbastanza tempo sulla piazza matura un ruolo “nobile” nella società, viene riverito dai giovani. E quindi il festival doveva per forza chiamarmi; essere preso in considerazione da loro sancisce definitivamente il mio status di don, significa che sono un membro autorevole della comunità sonora. Scherzi a parte, il Ravenna Festival è sì un festival molto istituzionale, ma è sempre molto attento a quello che si muove sul limitare dell’ufficiale, la direzione artistica ha ancora la voglia di curiosare nel sottosuolo, di andare a catturare le cose prima che vengano sdoganate. Volevano ridare un palco ufficiale al progetto Don Antonio, e mi fa molto piacere, perché è un festival per cui ho sempre avuto una grandissima ammirazione – lo dico assumendomi il rischio della piaggeria –, una kermesse enorme, che però al tempo stesso mantiene quella curiosità di cui parlavo, va a intercettare certe cose più sotterranee, quando potrebbe tranquillamente fare la “lista della spesa” degli artisti famosi in quel dato periodo. Invece ha una direzione artistica e questo è fondamentale e si vede».
Con Capossela hai un ottimo rapporto.
«Sì, mi ha chiamato anche per il suo ultimo disco, Tredici canzoni urgenti, di cui ho prodotto tre brani, e ho fatto molte date del tour nell’estate scorsa, tra cui festival grossi come quello di Budapest. Il mio rapporto con Vinicio è così: non sono tecnicamente un musicista della sua band, ma una persona con cui ha uno scambio artistico quando ne ha voglia, e questo mi va benissimo. Comunque, il fatto che si metta in discussione in queste situazioni, come il concerto al Festival, in cui permane un ambito di informalità, secondo me è molto nobile. Uno come lui potrebbe semplicemente andare in giro a suonare i suoi successi maggiori e la gente sarebbe contentissima, e invece a lui interessa che la musica succeda, e per far sì che la musica succeda devi tendere degli agguati agli ascoltatori e a te stesso, se no la musica non succede, al limite va in scena».
A Russi, invece, con Dalibor Pavicic e la tua band, aprirai per i Calexico, altra band che conosci bene.
«I Calexico sono un collettivo di musicisti con cui ho avuto scambi più o meno continui da vent’anni, e per l’occasione ho proposto al Festival l’idea di essere insieme a quello che è sempre stato un po’ il Don Antonio dei Balcani, Dalibor Pavicic, un musicista che suona la chitarra in stile molto twang, ma che al tempo stesso ha fatto colonne sonore – c’era un suo pezzo anche in Breaking Bad –. Lui e la sua band, The Bambi Molesters, in Croazia sono rockstar, insieme abbiamo fatto questa sorta di riposizionamento del suono della chitarra, che è molto italo-americano, ora con l’Adriatico in mezzo vediamo cosa succede. Era già nata un’amicizia, ora credo possa nascere un sodalizio interessante».
La chitarra è sicuramente la tua dimensione aurea.
«Certamente, ma prima della pandemia avevo pubblicato La bella stagione, un disco di canzoni (per quanto interpretate da un non-cantante come me), che forse è la dimensione in cui adesso riesco ad applicare le cose che so, è ciò che mi interessa. Però ultimamente son tornato un po’ alla musica strumentale, perché Netflix mi ha fatto fare la colonna sonora di Wanna, adesso ne sto facendo anche un’altra, per cui ho dovuto riprendere la chitarra in mano immaginando che la mia voce fosse quella. Il concerto di Don Antonio al Ravenna Festival è un po’ la summa di tutto e il fatto di farlo coi Calexico ha un sapore particolare, con tutto il percorso che mi ha portato lì, al cercare di dare un senso contemporaneo all’uso della chitarra come propria voce».
Hai accennato alla pandemia, tu come l’hai vissuta?
«Sarò sincero, ho vissuto malissimo il biennio pandemico, per motivi socio-politici e sociologici, e non ho vissuto bene nemmeno la ripartenza, perché l’ho trovata bulimica. Il mercato si è riassestato ma lo ha fatto su tutte le variabili che mi interessano meno: ora tutto è diventato evento, che se non è sold out è un fallimento, ed è venuto molto meno il sostegno a locali medi e piccoli che erano l’ossatura di una società che vuole produrre musica partendo dal basso, dalle esigenze vere legate alle urgenze espressive. A fronte di un aumento esponenziale degli eventi con pubblico oceanico, quelli delle dimensioni con cui mi sono formato, con 60-80 spettatori, non trovano più gli spazi, e forse generazionalmente sono venuti meno anche gli spettatori, per un certo tipo di proposte».