Il miglior maitre d’Italia: «Il mio compito è quasi quello di uno psicologo…»

Il cervese Rudy Travagli, recentemente premiato alla “50 Top Italy”, lavora all’Enoteca La Torre di Roma, 2 Stelle Michelin

Rudy Travagli

Classe 1979, “Miglior Sommelier di Romagna” nel 2009 e “Miglior Sommelier d’Italia” sul Sangiovese nel 2010, ruoli di altissimo livello nei ristoranti più famosi del Paese e d’Europa, il cervese Rudy Travagli è attualmente maître e sommelier del ristorante con due Stelle Michelin e tre Torchette del Gambero Rosso Enoteca La Torre nell’Hotel Villa Laetitia di Roma, nonché presidente di “Noidisala”, associazione che raggruppa l’élite dell’accoglienza italiana di sala. Da poche settimane è stato nominato “Maître dell’Anno” nell’ambito della premiazione di 50 Top Italy Goeldlin Award.

Un vero fuoriclasse, insomma, con cui è stato davvero un piacere fare due chiacchiere.

Rudy, ormai conti 25 anni di carriera, ripercorriamone i momenti salienti.
«Dopo qualche stagione da bagnino a Cervia mi resi conto che non faceva per me e nel 1997 accettai un’offerta di lavoro in sala in un nuovo “disco dinner” della famiglia Del Bello. Era il primo ristorante gourmet della zona e comincio a capire come funziona il mondo dell’alta ristorazione. Inoltre, ci lavorava il sommelier professionista Fabio Cavicchi. Fu lui a spingermi a fare il corso da sommelier, nel 2003 mi diplomo e da lì la mia passione per il vino è esplosa. Inizio a fare qualche servizio nei ristoranti e le gare, che vanno bene, finché nel 2004 arriva la chiamata di Giorgio Pinchiorri, un sogno, la svolta assoluta, finalmente potevo toccare con mano ciò che avevo studiato sui libri nella cantina monumentale di un tre Stelle Michelin. Mi trasferisco quindi a Firenze e in tre anni accumulo un’esperienza enorme: assaggio tutti i vini più pregiati, capisco le differenze tra le annate, comincio a conoscere i produttori, mi focalizzo davvero su ciò che voglio fare, insomma “divento grande”. Poi, nel 2008, decido che mi serve un’esperienza all’estero, nella fattispecie in Inghilterra, e punto dritto al top, il Fat Duck di Heston Blumenthal, subito fuori Londra, in quel momento il miglior ristorante al mondo. Non pensavo assolutamente che mi prendessero, non parlavo nemmeno inglese, invece a sorpresa il sommelier capo, Isa Bal, mi chiama per un colloquio e succede il contrario di ciò che mi aspettavo: per loro ero io quello bravo, in virtù dell’esperienza da Pinchiorri».

Beh, non male, a soli 29 anni.
«Sì, ma rimango lì un anno, e dopo un passaggio a Cervia e un altro a Firenze al ristorante Borgo San Jacopo dei Ferragamo, Oscar Farinetti di Eataly mi chiede di andare da lui a Roma. Quello si rivelerà l’anno più ricco a livello di incontri e relazioni, ho conosciuto tutto il mondo dell’alta ristorazione, ogni mese avevamo Cracco, Heinz Beck, Cannavacciuolo, tutta la stampa specializzata girava attorno a Eataly. Non era però quello a cui puntavo, ma l’occasione giusta è in arrivo nel 2013, quando entro all’Enoteca La Torre dell’hotel Villa Laetitia a Roma, una stella Michelin. Quindi, ricapitolando, nasco sommelier, divento maître a Eataly, ma decido di tornare a fare il sommelier a Roma, anche se ora sono anche maître. Da quel momento La Torre cresce molto, apriamo altre strutture, nel 2015 divento socio, nel 2018 prendo in mano anche la parte servizio e divento buyer dei vini di tutto il gruppo. Nel 2016 entra lo chef attuale, Domenico Stile, e alla fine arriva anche la seconda stella. Prima però, nel 2012, insieme ad altri sei colleghi, avevamo fondato l’associazione “Noidisala” – che raggruppa tutti i professionisti di sala d’Italia e svolge il ruolo di rivalutazione del ruolo di cameriere e del personale di sala –, di cui nel 2023 divento presidente. La Torre ottiene vari riconoscimenti, e nel 2022 divento anche “Chevalier dell’Ordine dello Champagne” a Reims, cosa di cui vado molto orgoglioso, soprattutto da italiano. Infine, è arrivato il titolo “Maître dell’anno 2024 – Goeldlin Award”».

Per diventare un sommelier del tuo livello immagino che occorra anche un talento naturale, oltre a tutto lo studio e le esperienze.
«Sì, devi esserci portato, ma credo sia così in tutti i lavori. Chi diventa un professionista è perché ha qualcosa in più. Per il vino ho una passione smisurata, e sono convinto che anche il fatto di essere romagnolo vada considerato. Il romagnolo parla poco e lavora tanto, e poi è molto aperto, lo immagino sempre a braccia aperte. Tendiamo a diventare amici degli altri in modi trasparenti, genuini. Comunque, l’abnegazione resta il fattore fondamentale, e purtroppo vedo tanti giovani che non hanno voglia di fare la gavetta e le esperienze che in questo lavoro sono imprescindibili»

Invece cosa occorre per essere un maître impeccabile? Me lo immagino come un ruolo in cui servono psicologia, empatia, nervi saldi…
«Proprio così. Il servizio in sé quasi passa un po’ in secondo piano, tante regole oggi sono andate un po’ perse, però il compito di maître o responsabile di sala è davvero quasi quello di uno psicologo, ma non solo col cliente, anche col proprio team e naturalmente con lo chef. Io, ad esempio, ho una squadra di 7-8 ragazzi, che occorre mantenere sempre motivati e ai quali devi dare spazio e libertà, perché i sacrifici che si facevano una volta oggi non sono più accettati. Bisogna adeguarsi, e non è facile, visto che vengo da 25 anni di lavoro fatti in un certo modo. Ma è certamente il cliente il fulcro di tutto, si deve creare empatia mentre lavori, anche perché con due stelle Michelin il cliente non te ne fa scappare una. Oggi non si viene in un due stelle solo a mangiare ma per fare un’esperienza, e sei tu che la fai fare, spiegando i piatti, i vini, gli abbinamenti, i motivi di ciò che gli suggerisci. Diventiamo quasi un tutor».

Parliamo di vino. Prendiamo un’ottima bottiglia da 100 euro e un Barolo “Monfortino” riserva del 2014 da 1.200 euro. I 1.000 e passa euro di differenza un professionista li sente o siamo ormai nel campo del mito, del feticismo?
«Eh, domanda difficile. Diciamo che fino a certe cifre la differenza si sente assolutamente, ma oltre non c’è motivo, a livello gustativo, che giustifichi certi prezzi, è pur sempre una bottiglia di vino. Ci sono tantissimi vini eccezionali, e le degustazioni alla cieca lo dimostrano, con bottiglie che superano referenze molto più costose. Già spendere 500 euro diventa faticoso da accettare. Andare più su diventa una questione complessa. Insomma, è evidente che sopra certe cifre il fattore psicologico e di status symbol (che poi si applica anche alla moda, per dire) non si può trascurare».

Qual è il vino migliore che hai mai assaggiato?
«Non ho un vino mio preferito. Mi piacciono molto il sangiovese e il Borgogna, sia bianco che rosso, e il nebbiolo; quindi l’eleganza ma anche la schiettezza del sangiovese. Se devo dire un vino che mi è rimasto dentro, soprattutto nel momento in cui l’ho bevuto (e sicuramente dopo ne ho assaggiati di migliori), è stato lo Chateau Latour 1990 (un Premier Grand Cru Classé di Bordeaux, ndr). E purtroppo devo dire che oggi faccio molta più fatica a emozionarmi assaggiando un vino».

La Romagna enoica come sta lavorando? Si può migliorare?
«Secondo me la Romagna è arrivata a un bel livello, sia di qualità e pronta beva (che ha sempre avuto) che di invecchiamento, perché oggi si possono bere dei sangiovese di 10-12 anni davvero buoni. Penso a Nicolucci e Ottaviani, alle aziende storiche come Zerbina, tutti livelli alti. Mi piace molto il vino che fa Chiara Condello, quasi di nicchia, ci vorrebbero più persone come lei, che è riuscita a portare il nostro sangiovese nei ristoranti stellati, mi ha sorpreso il suo vino, per certi versi sembra un brunello, addirittura con più vivacità. Poi sì, se guardi alla Toscana, la nostra vicina, è chiaro che siamo ancora un po’ lontani, però abbiamo un’identità – anche se non potrà mai essere come la loro – e oggi il nostro sangiovese è forse quello che deve essere, un vino fatto bene, buono, genuino, come la gente romagnola. Anche perché per me il momento più bello della vita di un vino (anche di un barolo o un brunello) è tra i 10 e i 15 anni».

Il cambiamento climatico sta davvero modificando anche le zone enoiche nel mondo o per ora è un allarme ipotetico?
«No, l’allarme è reale, ci sono tantissimi casi concreti. Ad esempio, quando ho iniziato a studiare io il vino, in Inghilterra c’era solo un produttore, Nyetimber, che faceva spumante e non lo conosceva quasi nessuno, oggi invece sono tanti e bravi, perché il clima è molto più mite. Ma anche da noi gli esempi non si contano: l’Etna negli ultimi dieci anni ha spopolato perché ha un clima migliore e crea vini più freschi e meno impegnativi (e comunque oggi si è portati a bere vini di più facile beva, più eleganti che potenti, alcolici e tannici). In Franciacorta poi, visto che oggi è più caldo, hanno piantato un’uva che si usava una volta, l’erbamat, molto più acida, che va ad aiutare la cuvée, altrimenti lì i vini rischierebbero di essere “stanchi”. Altro esempio è Lamole di Lamole, la zona più alta e fresca del Chianti Classico, dove oggi tutti si stanno buttando a comprare le uve. Se andiamo avanti così i vini dovranno essere etichettati come superalcolici! (ride, ndr)».

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