Lo storico Baravelli: «La vera culla del fascismo fu l’Emilia-Romagna»

Un saggio in libreria del docente ravennate ripercorre le origini e l’evoluzione delle “Forme del Nero”

Andrea Baravelli Storico

Lo storico Andrea Baravelli

Storico, docente dell’Università di Ferrara, il ravennate Andrea Baravelli ha da poco dato alle stampe un saggio dal titolo Le forme del Nero per Franco Angeli editore.

Baravelli, la tesi cruciale del suo libro è che l’Emilia-Romagna sia stata di fatto una vera e propria culla per il fascismo.
«Esattamente. Il fascismo è nato a Milano nel 1919 come uno dei tanti movimenti di quel periodo in una destra molto divisa e variegata, mentre qui prende piede e in qualche modo dimostra al resto dell’Italia che può funzionare e vincere».

Questo è piuttosto sorprendente se si pensa che allora questa era la regione socialista per eccellenza, quella della Settimana rossa del 1914…
«In un certo senso è proprio questo il punto: una volta che il fascismo dimostra di poter vincere e affermarsi in quella che allora era considerata ormai una terra “persa al socialismo” anche dalla stampa nazionale acquista credibilità nel resto d’Italia».

Ma come è stato possibile che proprio qui abbia attecchito con successo?
«Innanzitutto dobbiamo decostruire l’immagine dell’Emilia-Romagna come una regione compatta e unitaria, terra di braccianti, cooperative, socialismo. Si tratta di una regione vastissima, nata come costruzione artificiale e amministrativa. Ma l’immagine all’esterno e anche all’interno era quella di una terra di rossi, soprattutto dopo che nelle amministrative del 1920 i rossi vincono quasi tutti i municipi tra Ferrara e Bologna. Ed ecco perché proprio schiantando quel movimento in quella zona, la prima dove agiscono i fascisti, il movimento prende forza e accelerazione. A quel punto si struttura anche in Toscana e in Lombardia e catalizza tutti i gruppuscoli a destra».

«Ricordare come nacque e si impose il regime significa raccontare come muore uno stato libero»

Ma chi appoggia il fascismo in regione?
«Potremmo appunto dire che il “cluster” è tra Ferrara e Bologna, dove l’economia era basata sull’agricoltura, su grandi proprietà di pochi padroni lavorate da masse di braccianti. Qui le rivendicazioni dei lavoratori avevano anche un aspetto fortemente politico e così i grandi latifondisti, di fronte a quello che loro ritenevano un intervento inadeguato dello Stato, si auto organizzano pagando le milizie fasciste che si rivelano efficienti e letteralmente “schiantano” i socialisti. Da qui, la distorsione prospettica sulla presunta omogeneità del territorio, fa sì che quel metodo si diffonda anche al resto della regione, sebbene con modalità diverse».

Eppure nemmeno i socialisti erano digiuni di violenza, perché non reagirono?
«La violenza dei socialisti era molto diversa, quasi ottocentesca, armata di bastoni, roncola e qualche doppietta da caccia, non avevano un’organizzazione bellica come i fascisti che potevano contare spesso anche sulle armi dello stesso esercito e avevano un approccio tipico della guerra con tanto di mezzi su ruote, raid, distruzioni di sedi dei sindacati e delle cooperative».

Libro Fascismo BaravelliQual è la base sociale dei “neri”?
«All’inizio sono pochi reduci, di solito al comando, e tanti giovani e giovanissimi che non avevano fatto la guerra e che per ragioni di genere ne soffrivano: il vero uomo all’epoca era appunto quello che aveva combattuto in battaglia. Poi c’era qualche piccolo borghese, impiegati, gente che mai aveva votato o avrebbe votato socialista. Un numero ridotto, ma che fu sufficiente grazie al fatto che tutte le forze dell’ordine, dai carabinieri ai giudici dell’epoca, hanno sempre considerato i socialisti e i sovversivi il vero nemico. Una volta che i fascisti dimostrano che con la guerra si possono piegare gli avversari, iniziano ad aumentare anche gli iscritti. A quel punto sono spesso gli stessi braccianti dentro le coop e le leghe che passano dal rosso al nero, per poter vivere e lavorare».

Abbiamo sufficiente memoria di tutto ciò oggi?
«Credo che quella che coltiviamo sia una memoria abbastanza vuota per le giovani generazioni perché negli ultimi anni si è imposta una memoria centralizzata sulla seconda guerra mondiale e la Shoah, questioni importantissime, ma che sono diventate un buco nero che attrae tutte le energie e costruisce un paradigma incentrato sulle vittime. Credo sarebbe invece importante studiare e saper raccontare come il fascismo si è affermato: è la storia di come muore un paese libero. L’Italia non era ovviamente una democrazia come quella di oggi, ma era un sistema liberale dove si potevano esprimere idee e c’era una possibilità di promozione delle classi sociali».

«L’idea del fascismo come dittatura morbida, rispetto al nazismo, è un luogo comune che ha una lunga storia: fece comodo a tutti»

Oggi non è raro sentire dire che i veri cattivi in fondo sono stati i nazisti e non i fascisti, anche tra ragazzi molto giovani…
«Non è colpa della scuola, ma della forza che sta intorno alla scuola e che è fatta di questi luoghi comuni che hanno una lunga storia. L’idea del fascismo come dittatura morbida fu coltivata da tutti nel dopoguerra per strappare migliori concessioni agli alleati. Fece comodo a tutti, anche agli antifascisti, scaricare sui tedeschi gran parte delle responsabilità, come quella delle leggi razziali. Per la stessa ragione abbiamo rimosso il nostro terribile passato coloniale fatto di genocidi e di una vera e propria apartheid in Etiopia».

Cosa ha pensato sentendo la ricostruzione storica di via Rasella da parte del presidente del Senato La Russa?
«Cosa si può pensarne? Sta parlando al suo elettorato, mi pare evidente, facendo leva su un tema fortemente identitario visto che le vere questioni politiche ormai sono sovranazionali e nessun governo può davvero incidere come promette in campagna elettorale. Credo che La Russa sia venuto meno al ruolo di moderazione che dovrebbe essere insito nel suo incarico. Non so se accetterei di presenziare come studioso a un appuntamento celebrativo che vedesse la sua partecipazione, come da tempo evito di impegnarmi rispetto a momenti – come il Giorno del ricordo – che considero molto negativamente».

Ma secondo lei c’è il rischio di una qualche deriva autoritaria oggi in Italia?
«Non corriamo di certo il rischio di ritorno al fascismo secondo forme tradizionali, mentre c’è il rischio che il tessuto di valori che ha sorretto la Repubblica venga stravolto e che si costruisca un sistema politico disancorato da quei principi. Potremmo andare verso un modello americano con masse sempre più fidelizzate e divise che vengono mobilitate, come tifoserie, solo in occasione delle elezioni o di qualche polemica creata a tavolino per dar ragione della propria esistenza, senza più momenti di condivisioni, senza mediazioni».

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