Il tema dell’immigrazione è stato al centro del dibattito di questi giorni, anche perché legato a quello della cittadinanza, argomento di uno dei cinque referendum abrogativi dell’8-9 giugno. Per chiarire alcuni aspetti di una materia complessa, abbiamo rivolto alcune domande a Filippo Miraglia, responsabile nazionale di Arci Immigrazione, che è stato ospite a fine maggio alla festa provinciale di Arci.
Partiamo dalle basi: quando si parla di immigrazione in Italia, di chi si parla? Chi sono le persone che emigrano verso il nostro Paese?
«Sul nostro territorio oggi si trovano circa 5 milioni di stranieri che vengono da Paesi diversi, sia Ue che non. Gran parte sono lavoratori e lavoratrici, sono persone che si sono regolarizzate tardi, per esempio fu Berlusconi solo nel 2002-2003 a regolarizzare in massa 650mila stranieri. Ma ne rimangono ancora molti in difficoltà. Buona parte di quei 5 milioni sono giovani, hanno salari più bassi degli italiani e molti di loro hanno una famiglia, vivono qui con un permesso di “lungo soggiornanti”, ottenibile con reddito, una casa e una famiglia. Altri ancora sono in Italia mediante il canale di “ricongiungimento familiare”. È tutta gente che contribuisce allo sviluppo della nazione, ma non è italiana. La legge sull’immigrazione è un testo unico che il governo Meloni ha modificato 24 volte, più di ogni altro esecutivo. A ogni modifica si complica un po’ di più la vita a chi cerca di mettersi in regola».
Come funziona la gestione di un programma così ampio come Arci Immigrazione?
«Negli ultimi 30 anni la componente immigrazione e asili è divenuta un settore molto importante tra i nostri circoli e le nostre sedi, dagli anni ‘80 abbiamo sempre più a che fare con l’inserimento sociale e culturale di persone straniere. Il nostro è un impegno ad ampio raggio su accoglienza, lotta al caporalato e allo sfruttamento. Io coordino da Roma le attività e rappresento istituzionalmente Arci negli incontri tra associazioni, parti politiche ed eventi».
Quali sono le attività di Arci nell’accoglienza?
«L’accoglienza riguarda i rifugiati e i richiedenti asilo. Oggi il fenomeno è molto politicizzato, si parla solo di loro dal 2011 circa, ma rappresentano meno del 10 percento del flusso migratorio verso l’Italia. Gli altri lavorano, studiano o sono in ricongiungimento familiare. Oggi sono circa centomila i richiedenti asilo con successo, attraverso i programmi chiamati Sai, Cas e Corridoi Umanitari. Arci cerca di instradare all’autonomia personale gli oltre cinquemila stranieri che è stata in grado di accogliere: vengono dati loro le chiavi di un alloggio e risorse da gestire individualmente, non abbiamo molte strutture collettive, né staff che se ne occupi. Attraverso circoli e comitati avviamo all’inclusione linguistica, quindi sociale e culturale, anche dove non è obbligatorio per legge. Gestiamo inoltre un Numero Verde gratuito che conta migliaia di utenti e risponde in 15 lingue e la piattaforma digitale Juma Map che offre sostegno e servizi di ogni genere sul territorio di interesse, grazie a un censimento nazionale di locazione».
Quali sono i problemi principali che incontrano le Ong nell’attività di salvataggio nel Mediterraneo? Come è attiva Arci?
«Il governo Meloni-Piantedosi e in generale le nazioni Europee ostacolano le operazioni: il governo italiano fa affari col governo libico, che compra esseri umani per barili di carburante dalla gendarmeria tunisina per poi mandarli a essere sfruttati e affamati nei lager, o a essere stuprate nel caso delle donne, chiedendo ingenti somme alle famiglie dei prigionieri per la liberazione. Nonostante abbiamo centinaia di testimonianze, noi europei sosteniamo Libia e Tunisia di fronte alle accuse di Ong e organismi sovranazionali. Ci troviamo di fronte a diritti e dignità calpestati per propaganda politica. Arci non fa più parte di Mediterranea Saving Humans, ma abbiamo da poco istituito il Tom, “Tutti gli Occhi sul Mediterraneo”: un progetto di monitoraggio delle acque tra Libia, Malta e Lampedusa. Cerchiamo di obbligare le autorità italiane, dalla guardia costiera ai carabinieri a intervenire sui salvataggi. Oggi vediamo un progressivo diminuire di attività di questo tipo, pertanto cerchiamo di investire in quel braccio di mare che fa più morti in Europa. Abbiamo due imbarcazioni a vela, 13 e 17 metri, con le quali si sono già effettuati due salvataggi: sono ormeggiate e gestite in Sicilia a Licata e una volta al mese usciamo in mare».
Quali miglioramenti potrebbero essere introdotti sia per i rifugiati e sia per i milioni di stranieri in Italia?
«Pensiamo che l’amministrazione dei permessi vada sottratta al ministero e vada data agli enti locali. Sono vent’anni che le prefetture e le questure sono sommerse da pratiche e hanno un personale sottodimensionato. Proponiamo accordi che permettano alle persone di rivolgersi agli Stati e non ai trafficanti. Dopo la strage di Cutro, febbraio 2023, è passato un nuovo decreto che fa sì che la “protezione speciale” non possa più diventare permesso di lavoro. Questo colpisce ampie fasce di stranieri con un contratto a tempo indeterminato: si vedono costretti a non poterlo accettare perché non avendo più il permesso di lavoro devono rinnovare la protezione speciale e non è detto che abbiano ancora i requisiti dopo due anni. Abbiamo presentato proposte di legge e progetti, ma finché la politica sfrutta la questione per fare propaganda le cose sono solo destinate a peggiorare».