Riceviamo e pubblichiamo un intervento di Pippo Tadolini, della campagna “Per il clima – Fuori dal fossile”, post Cop30, la Conferenza delle Parti, ossia il più grande evento globale per le discussioni e i negoziati sui cambiamenti climatici.
Si è conclusa la Cop30 di Belém, in Brasile, e a tutte e tutti noi resta ancora una volta l’amaro in bocca. Anche se scienziati, paesi vulnerabili, agenzie Onu e la stessa presidenza brasiliana hanno cercato di insistere sull’urgenza assoluta di affrontare la crisi climatica, i cui segni sperimentiamo ogni anno – anzi ogni giorno – con sempre maggiore drammaticità – il vertice di Belém si chiude con un risultato assai misero. Mesi di negoziati, una mobilitazione scientifica senza precedenti e un movimento ambientalista ormai abbastanza radicato in tutto il mondo, e poi alla fine un testo, approvato alla Cop30 da 195 paesi, che non contiene alcun riferimento esplicito all’eliminazione dei combustibili fossili.
Ognuno potrà andare a leggersi nel dettaglio ogni materiale prodotto, e magari vi troverà anche cose interessanti, ma nel complesso il documento finale (a questo link) riflette un limite gravissimo, che allontana ancora la possibilità di mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 °C in più rispetto al punto di riferimento ormai universalmente riconosciuto.
Dal momento che l’attenzione dei mezzi d’informazione sulla Cop30 è stata mediamente scarsa e ha trattato l’evento come una vicenda tutto sommato secondaria nell’agenda informativa, vale la pena di ricordare che oltre 80 Paesi avevano chiesto di inserire nel testo finale una formulazione inequivocabile, che impegnasse tutti gli Stati a una transizione accelerata e definitiva dai combustibili fossili, specificando che si dovessero esplicitare sia l’eliminazione – pur graduale – di carbone, petrolio e gas, sia la fine dei sussidi pubblici alle fonti fossili. E in più un’agenda chiara per aumentare progressivamente la quota di energie rinnovabili. Bisogna inoltre sottolineare che la stragrande maggioranza dei Paesi dell’Unione Europea, nonostante i preoccupanti passi indietro di questi ultimi anni sul green deal, aveva condiviso questa proposta, e che purtroppo fra i sottoscrittori europei l’Italia non compare. È utile aggiungere che gli altri Stati sottoscrittori erano intanto i Paesi vulnerabili e Small Island Developing States (Sids), come Barbados, Marshall Islands, Vanuatu, cioè quelli che vedono come ormai imminente la propria fine a causa dell’innalzamento del livello dei mari, diversi Paesi africani fortemente colpiti dagli impatti climatici e alcuni Stati latinoamericani come Cile, Colombia, Costa Rica, da tempo convinti sostenitori di un’uscita ordinata e rapida dalle fossili.
Quindi una coalizione ampia, che al di là delle diverse collocazioni geostrategiche ha assunto la consapevolezza di una certezza scientifica: senza una riduzione drastica dell’uso di petrolio, carbone e gas, l’obiettivo del limite di 1,5 °C diventa irraggiungibile.
L’Italia esprime una posizione più che ambigua: dice di ribadire l’impegno alla transizione, ma tiene a sottolineare che «è importante poter ricorrere a tutte le tecnologie disponibili», che è come affermare che per ora le fonti fossili non si toccano.
In prima fila nel dettare la linea ostruzionista, manco a dirlo, l’Arabia Saudita, per la quale la difesa del petrolio è praticamente sacra, la Russia, che si guarda bene dall’ammettere che l’estrattivismo sul quale campano la sua economia e il suo regime vadano messi in discussione, l’Iran, ovviamente allineato alle posizioni dei grandi produttori; e poi la Cina (che accusa i Paesi più “ecologisti” di avanzare una proposta non equilibrata nella distribuzione degli oneri), della quale, però, va sottolineata la velocità vertiginosa che da qualche anno ha impresso ai processi di riconversione verso le rinnovabili, e altri Paesi esportatori di combustibili fossili.
Per cui, alla fine, il testo parla genericamente di “accelerare l’azione per il clima” e “rafforzare la resilienza”, che è come dire andiamo avanti come se nulla fosse e ognuno faccia quello che vuole e cerchiamo di adattarci, ovvero: i padroni del sistema fossile sono troppo potenti per poterli disturbare. Proprio l’elemento centrale su cui si gioca la traiettoria climatica globale viene completamente tradito.
Da tutto ciò emerge anche un altro dato: la totale assenza degli Stati Uniti del negazionista Trump, che ha fatto della sua lotta senza quartiere alla riconversione ecologica una delle sue guerre preferite. Il principale emettitore di CO2 e di ogni tipo di inquinante del Pianeta, ha deciso di indebolire il più possibile il fronte dei Paesi favorevoli a un accordo minimamente coraggioso. Schierandosi quindi, senza se e senza ma, dalla parte dei produttori di petrolio e gas.
Niente di buono, quindi, in questa Cop30? Forse qualcosa c’è. Il multilateralismo non si è dissolto, e molti fra i Paesi emergenti, non hanno rinunciato a fare sentire la propria voce né a disegnare percorsi di impegni da mantenere in ogni caso. È stata confermata l’iniziativa Onu che mira a garantire sistemi di allerta precoce in tutti i Paesi entro il 2027; è stato rafforzato il Fondo “Loss and Damage” con nuovi contributi da vari Paesi europei, e un rafforzamento dei meccanismi tecnici; si è lanciato un programma di iniziative per il monitoraggio satellitare condiviso, con il supporto alle comunità indigene. E bene o male, il pacchetto finale impegna i Paesi a presentare gli obiettivi aggiornati e coerenti con la traiettoria 1,5 °C entro il 2029.
Potrebbero essere risultati importanti in presenza di orizzonti vincolanti per tutti, ma senza un’agenda chiara per ogni azione necessaria e soprattutto senza la dichiarazione che dal sistema fossile si deve uscire, non compensano minimamente i danni che produrrà la scelta liberista, guidata da chi attualmente detiene il potere di condizionare le scelte energetiche e ambientali (si, ambientali in senso lato, perché non di sola energia si sta parlando).
In pratica, la diplomazia climatica è ostaggio degli interessi di chi trae profitto nel ritardare l’azione necessaria, e ciò è politicamente e moralmente inaccettabile.
Nulla da fare, quindi? Al contrario, e qui veniamo ai nostri impegni per il futuro immediato e lontano. Proprio perché dai potenti della Terra non vengono segni di volontà, è quanto mai necessario che le comunità scientifiche, i movimenti, le città e i territori, i poteri locali, le organizzazioni sociali e le singole persone continuino a muoversi con decisione. Se la politica internazionale a Belém ha colpevolmente e in maniera criminale perduto l’ennesima (l’ultima?) occasione, rifiutandosi di chiamare per nome i combustibili fossili, cioè ignorando la causa primaria della crisi, è quanto mai necessario che dal basso vengano delle spinte sempre più decise. Resta decisivo il ruolo della società civile, dei movimenti climatici, delle comunità locali.
Bisogna anche dire con chiarezza che, per il momento, anche i poteri locali remano contro. Per rimanere nel nostro specifico, sia la Regione Emilia-Romagna che il Comune di Ravenna, a tutt’oggi si sono ben guardati dal produrre una propria road map per l’inizio della dismissione del soffocante reticolo fossile nel quale siamo immersi. Non solo, ma con grave vulnus non solo per l’ambiente, ma anche per lo stesso sistema democratico, importanti iniziative della società civile come le leggi d’iniziativa popolare presentate dalla Rete Emergenza Climatica e Ambientale Emilia Romagna e da Legambiente per la transizione ecologica, giacciono nei cassetti della Regione da tre anni senza essere discusse e approvate. E su questo chiamiamo ognuno ad assumersi le proprie responsabilità.
Siamo ormai completamente disillusi su quello che potrà venir fuori dalle prossime Cop (la prossima edizione si terrà nel novembre 2026 in Turchia). Ma proprio per questa disillusione, se non vogliamo arrenderci ad un futuro dagli scenari catastrofici e a una vita invivibile per le nostre figlie, figli, nipoti e pronipoti, dobbiamo continuare a lavorare e moltiplicare le nostre mobilitazioni.
Non siamo del tutto sole/i. Non solo per il fatto che in tutto il mondo movimenti e popolazioni stanno acquisendo sempre più consapevolezza e determinazione a prendere in mano i propri destini, ma anche perché alcuni Stati non intendono subordinarsi totalmente allo stato di fatto. Per esempio, come conseguenza della beffa di Belém, i governi di Colombia e dei Paesi Bassi hanno annunciato l’organizzazione della prima conferenza internazionale dedicata alla “just transition” lontano dalle fonti fossili, prevista per aprile 2026 a Santa Marta (Colombia) e si propone di riunire governi, società civile, comunità indigene, industrie e istituzioni per tracciare “percorsi legali, economici e sociali” verso l’abbandono di carbone, petrolio e gas.
Sul nostro territorio, come sempre, faremo la nostra parte, e chiediamo a tutte e tutti di essere con noi.
Pippo Tadolini (Campagna “Per il Clima – Fuori dal Fossile”)



