Un incontro per condividere la sua lunga carriera nel cinema tra successi e fallimenti; ma anche un’occasione per trasmettere qualche lezione di vita, dall’alto dei suoi 85 anni. Quella con Pupi Avati a Milano Marittima (nell’ambito della rassegna nella rassegna del Ravenna Festival) sarà una serata che evoca la dimensione del tradizionale trebbo romagnolo, con un quartetto jazz (Teo Ciavarella al pianoforte, Checco Coniglio al trombone, Alfredo Ferrario al clarinetto e Francesco Angiuli al contrabbasso) che accompagnerà le parole del regista per un viaggio incentrato sull’importanza della musica, oltre che delle immagini. L’appuntamento è il 6 giugno alle 21.30 nella Rotonda Primo Maggio.
Pupi Avati, cosa ci aspetta dalla visione di questo spettacolo-incontro?
«Ormai ho vissuto gran parte della mia vita, è inutile nasconderselo. Perciò ho deciso di andare in giro a condividere la mia esperienza. Arrivato a questa fase dell’età, ho pensato di avere una sufficiente conoscenza del mondo per farla diventare oggetto di un racconto che sarà incentrato soprattutto sull’importanza di non trascurare i propri sogni. In un momento storico caratterizzato dal pessimismo e dall’omologazione diffusa, nel quale illudersi e sognare sembra qualcosa di proibito o quantomeno di non raccomandabile, può essere utile ascoltare la testimonianza di chi invece ce l’ha fatta. Rispetto ai giovani di oggi, la mia generazione è stata lasciata in pace: non ci è stato imposto nulla e soprattutto non siamo stati oggetto dell’attenzione del mercato; abbiamo potuto essere noi stessi e quindi siamo riusciti a immaginare e progettare. Insomma, abbiamo vissuto una vita da totali ingenui e ciò ha permesso a molti di noi di realizzare i propri sogni, anche i più straordinari e inverosimili. Ciò che cerco di comunicare nello spettacolo è proprio questo: il sogno deve essere grande affinché si realizzi, e soprattutto, essere ambiziosi e crederci è ancora più importante dell’avere talento».
Come si fa a trovare e coltivare il proprio sogno?
«Ogni essere umano dovrebbe essere stimolato a lasciare una traccia di se stesso attraverso ciò che fa. L’importante non è il lavoro che svolgiamo, bensì riconoscersi nel lavoro che svolgiamo. Che si tratti di un meccanico, di un accordatore di pianoforti o di un ragioniere, ognuno ha la possibilità di lavorare in modo personale: ciò significa portare avanti la propria identità e visione del mondo, anziché obbedire a un sistema che può sostituirti come una pedina. Negli ultimi anni il mercato è andato a imporsi su tutte le ideologie e ha massificato intellettualmente il mondo: di conseguenza, oggi tutti si spersonalizzano e si svestono del proprio abito per indossare l’uniforme. Il mercato ci impone ciò che dobbiamo leggere, ascoltare, guardare, ballare; e tante persone non se ne rendono nemmeno conto. Purtroppo oggi nemmeno la scuola, la chiesa e la famiglia fanno capire ai giovani l’importanza di essere se stessi e di esprimersi come vogliono. Perciò cerco di farlo io con la mia narrazione e con l’aiuto di un gruppo di straordinari musicisti, che aiutano a dare alle mie immagini un maggiore potere evocativo».
Prima di iniziare a lavorare nel cinema, ha tentato una carriera nella musica come clarinettista nella Doctor Dixie Jazz Band, dalla quale è uscito in seguito all’arrivo di Lucio Dalla. Guardandosi indietro, rifarebbe tutto da capo oppure prova qualche rimpianto?
«La musica mi ha dato un grande dolore, mi ha aperto una ferita che non si è mai rimarginata. Tuttora, quando devo autodefinirmi, dico innanzitutto di essere un musicista fallito. A causa della mancanza di talento e di impegno, ho dovuto rinunciare a malincuore a ciò che avrei voluto di più fare nella vita. È stato il periodo più complicato della mia esistenza. Nonostante mi sia sposato, abbia avuto dei figli e trovato un lavoro alla Findus, per anni ho rimpianto la mancata carriera nella musica e ho pensato che non avrei mai avuto un secondo sogno. Poi per fortuna è arrivato il cinema, che in qualche modo mi ha risarcito di quel fallimento».
La musica ha sempre avuto un ruolo centrale nella sua produzione cinematografica, che l’ha vista collaborare con compositori centrali nella scena italiana e internazionale, tra cui Henghel Gualdi, Amedeo Tommasi e Riz Ortolani. Qual è il suo rapporto personale con la musica?
«Per me la musica è una colonna sonora che mi accompagna durante tutta la giornata. Sono un grande amante del jazz e in particolare di Charlie Parker, che a mio parere ha rappresentato il culmine di questa espressione musicale. Poi è arrivato il free jazz che ritengo una inutile masturbazione, l’annullamento del concetto stesso di jazz. Da quel momento è iniziato il declino di questo tipo di approccio alla musica, e il risultato è che le generazioni più giovani quasi non lo conoscono più, perché non hanno avuto nemmeno la possibilità di avvicinarsi a quella che secondo me è stata la manifestazione artistica più innovativa e straordinaria della storia dell’umanità. È un grande peccato che la musica non sia una materia di studio obbligatoria nelle scuole, e lo stesso vale per il cinema. Se i giovani conoscessero meglio questi linguaggi, probabilmente avremmo una cultura diversa e un pubblico più esigente ai concerti e nelle sale».
Ha spesso attraversato la Romagna per vari motivi, dalla sua amicizia con Fellini fino al film Dante, girato in parte a Ravenna. Cosa significa per lei questa terra?
«Provo una grande ammirazione per i romagnoli, che talvolta sfocia nell’invidia e nel dolore per essere nato in Emilia anziché in Romagna. Trovo che i romagnoli abbiano un naturale carattere di autenticità, passionalità, convinzione, follia ed esuberanza, al contrario di noi emiliani che invece ci crediamo astuti ma siamo annebbiati. Per esempio, i miei conterranei credono che io abbia iniziato a fare cinema solo per diventare ricco e avere molte donne, e invece l’ho fatto proprio per girare tutti i film che ho firmato. I romagnoli, al contrario, sono i primi che se si mettono in testa un’idea balzana e futile, riescono a realizzarla e anche a farsi apprezzare per averla realizzata. E poi la Romagna è una terra bellissima: sia in campagna che in città, tutti si conoscono e tutti si amano e odiano allo stesso tempo, sempre in modo molto esplicito e senza alcun imbarazzo. Ecco, questo tratto così deciso del carattere dei romagnoli, questo essere dalla parte dell’irrazionalità anziché della ragione, è qualcosa di straordinario e che apprezzo da sempre, sentendomi più vicino a loro».
Dopo una lunghissima carriera che l’ha vista firmare oltre 40 film come regista, c’è ancora un sogno nel cassetto, qualcosa che le piacerebbe realizzare e che non ha ancora fatto?
«No; posso dire che sono riuscito a fare tutti i film che desideravo. Anche perché io e mio fratello Antonio, che ha sempre lavorato al mio fianco, abbiamo sacrificato tutto per il cinema; tanto che, nonostante possiamo vantare una carriera lunga e di successo, non ci siamo di certo arricchiti né abbiamo ville con piscina a Beverly Hills. Questo perché abbiamo voluto fare un cinema tutto nostro, che è sempre stato sul lato opposto rispetto all’orientamento generale del paese. Come il personaggio interpretato da Alberto Sordi in uno straordinario film di Dino Risi, Una vita difficile, che stava sempre dalla parte sbagliata, anche noi non abbiamo mai voluto scegliere la moda e la classifica. Anzi, siamo sempre rimasti defilati rispetto a questi meccanismi, poiché l’emarginazione ti regala una libertà altrimenti irraggiungibile. Una libertà che è costosissima, ma che alla fine del tuo percorso ti permette di rivendicare di essere sempre stato coerente con te stesso. Che penso sia la postura etica più apprezzabile in qualsiasi individuo».