“Stirpe selvaggia”, romanzo summa di Baldini

Il nuovo libro dello scrittore ravennate è un lavoro di ampio respiro in cui convergono tutti gli elementi della sua poetica

La copertina di “Stirpe selvaggia” di Eraldo Baldini

Il nuovo romanzo di Eraldo Baldini, Stirpe selvaggia (Einaudi) dal 29 novembre in libreria, è una sorta di summa del suo lavoro precedente e allo stesso tempo qualcosa che ancora, da lui, non avevamo letto. È infatti un romanzo che intreccia più storie, che segue più personaggi, che pur concentrandosi su Amerigo detto Bill, figlio di Buffalo Bill, tiene insieme i fili di diverse vite. E allo stesso tempo ripercorre, reinventadoli, tutti gli elementi fondamentali della poetica baldiniana.
Troviamo l’infanzia come età non solo di gioco ma soprattutto di scoperta (e non sempre idilliaca), troviamo la vita di comunità di un piccolo paese, troviamo i boschi, troviamo l’elemento magico (qu­e­l­­lo per cui forse ha raggiunto la fama nazionale ormai decenni fa), troviamo la crudeltà della guerra e l’impari lotta dell’essere umano in condizioni estreme insieme alla sete di rivalsa e di giustizia (come nel bellissimo e non abbastanza ap­prezzato Nevicava sangue), troviamo la conoscenza profonda della vita e delle credenze contadine (come in tanti suoi testi di saggistica), ritroviamo spunti e am­bientazioni di tanti racconti, come l’epoca del primo Novecento e poi la prima guerra mondiale e troviamo anche mo­menti di ironia e puro divertimento (come il cameo in cui appare un presunto He­mingway). Lo spunto da cui si dipana avanti e indietro la vicenda è la storia di Buffalo Bill e del memorabile spettacolo che si tenne a Ravenna nel 1906, momento in cui il protagonista scopre, bambino, di chi è figlio. Accanto a lui ci sono Mariano, un suo alter ego a cui lo lega un’amicizia fortissima che sopravviverà a scelte e percorsi diversi, e c’è Rachele, bambina e poi donna capace di sentimento ma anche di autonomia ed esempio di grande forza, elemento peraltro che caratterizza molti personaggi femminili nel libro. Di questi tre ragazzi che vedremo diventare adulti conosciamo le vicende familiari, gli ambienti dove sono cresciuti, la comunità in cui si muovono. E questa costruzione complessa e stratificata serve a dar vita narrativamente a quel tutto tondo che sempre più porta il lettore a un’autentica empatia e a una totale adesione non solo al protagonista, ma anche a coloro che gli ruotano intorno. Come non bastasse, in controluce, filtra la grande storia che si fa palcoscenico per alcuni momenti cruciali del romanzo ma non prende mai il sopravvento sul racconto di vite di persone fuori dagli schemi eppure così credibili. Un mondo affascinante che riesce a essere insieme rassicurante e angosciante, misterioso eppure abbastanza verosimile da far vacillare le nostre certezze su ciò che può o non può essere stato vero, riuscendo nell’impresa di farci diventare per qualche momento abitanti di un paesino di montagna del primo Novecento dove il confine tra reale e magico era assai più labile e meno tracciabile. E dove si poteva decidere di vivere tra i boschi lontano da tutto e da tutti. Un confine destinato a definirsi molto nettamente con l’accelerare degli eventi nel Novecento che andrà a sfaldare quelle comunità e quei sistemi e con esse le credenze che facevano parte di riti e gesti quotidiani, altro tema questo ricorrente nell’opera del narratore. Un libro denso, dalla lingua pulita e accurata, in cui spicca l’equilibrio tra lunghezza, trama, dialoghi, descrizioni, indagine psicologica e che può essere catalogo solo sotto il termine “romanzo”, senza etichette di genere, superando anche quella di gotico rurale che fu coniata appositamente per descrivere la sua opera. Un libro dopo il quale c’è da chiedersi come potrà Baldini di nuovo superarsi e stupirci. Ma vero è che non è la prima volta che ce lo chiediamo, e c’è da scommettere che non sarà l’ultima.

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