La stampa, i social, la salute mentale e la forza di una comunità

Come deve reagire chi è estraneo alla vicenda a una tragedia come quella di via Dradi? Esiste un manuale ai tempi dei social? E cosa deve fare la stampa, qual è il limite invalicabile?

Si è letto letteralmente di tutto in questi giorni: giudizi scomposti e necessariamente male informati sull’accaduto, accuse a famigliari, servizi sociali, servizi psichiatrici, al sindaco (per non aver citato il cane nel suo post di cordoglio, sic) e naturalmente alla stampa.

Si sono lette richieste e inviti più o meno perentori al silenzio. Ma si può davvero fare silenzio su un simile dramma? Davvero la morte di una bambina di sei anni per mano della madre in preda a demoni terribili può essere taciuta? La stampa locale, tutta, ha fatto il suo dovere. Ha messo in fila quanto è accaduto, ha dato elementi per ricostruire gli ultimi momenti di una vicenda così traumatica che è necessariamente diventata pubblica, perché una morte simile per una bambina non può essere un fatto privato o esclusivamente giudiziario. Questo non significa emettere giudizi, non autorizza nessuno a farlo e nessuno, sulle pagine dei giornali locali – che fanno informazione e non intrattenimento – lo ha fatto.

I social invece si sono riempiti di tanti commenti anche scomposti, un fatto che dimostra innanzitutto quanto questa vicenda abbia toccato tanti. Tra i numerosi giudizi sommari e polemici, si legge però forse innanzitutto la solidarietà alla famiglia di chi vive o ha vissuto la difficoltà di avere a che fare con la malattia mentale, la solitudine di tante famiglie alle prese con un male difficile da curare e monitorare. Si sono lette anche tante parole di compassione, nel senso etimologico del termine, per questa donna. Si sono lette tantissime accuse al Centro di salute mentale che non sono di oggi, di cui sappiamo tutti da tempo. Anche in questo caso, starà eventualmente agli inquirenti stabilire eventuali responsabilità, non si hanno sufficienti elementi per potersi fare un parere. Ma di certo questo evento non può che ribadire la necessità impellente e improcrastinabile di mettere al centro del dibattito collettivo e della spesa pubblica la salute mentale, senza più stigma per i pazienti e in un’ottica di aiuto alle famiglie, che non possono restare sole nella gestione dei loro cari, e anche di vicinanza a operatori, medici e infermieri, che sono in prima linea in una battaglia che avrebbe bisogno di un enorme sostegno economico e anche culturale.

Se la parola comunità per Ravenna ha ancora un senso, in questo forse ci potremmo ritrovare: meno giudizi sommari, più solidarietà, ma anche più voglia di capire se e come sia possibile prevenire altre tragedie simili.

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