Il “remoto” e la provincia: cosa si può salvare?

Assodato che non andrà tutto bene e che non ne usciremo persone migliori, resta da chiedersi: si può davvero salvare qualcosa di questi ultimi mesi? Il bisogno indiscutibile e indiscusso di far tornare i bambini, ma anche gli adolescenti in classe a settembre, certo.

La necessità per l’intera filiera culturale di riaprire cinema e teatri anche per ragioni di sostenibilità rischia ora invece di spazzare via anche quel pochissimo di buono che abbiamo imparato in questi mesi e che può essere tanto più prezioso per una piccola città alla periferia dell’impero da secoli. Il “remoto” può avere anche vantaggi nel futuro nel ridefinire i confini della geopolitica, nell’annullare distanze anche economiche.

Ecco allora che la possibilità di lavorare in smart working potrebbe diventare non solo un vantaggio per chi deve conciliare i tempi lavoro-famiglia, ma soprattutto per chi può svolgere lavori altamente qualificati magari senza essere costretto ad abbandonare la città. Oltre naturalmente ai benefici per l’ambiente, ragione per cui viene incoraggiato anche a livello politico, a partire da Bonaccini. Naturalmente sarebbe bello se questo non significasse di fatto accollarsi spese oggi a carico del datore di lavoro (a cominciare, banalmente, da quelle per esempio del riscaldamento o dell’affitto di una casa che deve contenere anche un ufficio) o sopperire alla mancanza di servizi come i nidi.

Potrebbe essere uno strumento per trattenere cervelli, creare reti, rendere attrattiva la città non solo per chi tradizionalmente fa un lavoro simile, come i traduttori, ma per fasce più ampie di lavoro. Ci saranno meno riunioni, con meno spostamenti, meno inquinamento, meno costi. Ecco, i costi. Vivere in provincia costa anche (un po’) meno, peraltro. Ma attenzione a chiudere le persone in casa, a isolarle come in un eterno lockdown, perché le ripercussioni potrebbero essere anche economiche. Chi lavora in casa, inevitabilmente, ha meno bisogno di abiti, vestiti, non prende il caffé con il collega e forse fa meno pause pranzo al bar sotto l’ufficio. Tutte cose che fanno bene all’economia, ma anche alla socialità in senso lato. Ecco allora che è quanto mai affascinante l’idea di nuovi coworking che siano di fatto uffici dietro casa.

Ancora più complesso, se possibile, è il tema dell’università. Laurearsi in ciabatte non è certo l’ambizione di nessuno, ma un’università che sia più facile da seguire anche da remoto può servire ad abbattere le difficoltà di chi non può permettersi di vivere fuori casa?

Infine, la cultura. I concerti che si possono seguire in streaming pagando un biglietto, come sta accadendo al Bronson, potrebbero smuovere il pubblico di nicchia a livello mondiale e quindi rendere possibili spettacoli altrimenti non sostenibili?

Non tutto, dunque, è da buttare. Nemmeno, in fondo, la famigerata Dad. Andare a chiedere a quei bambini (e ci sono) che l’hanno preferita alle lezioni in presenza, forse ci farebbe capire come si potrebbe migliorare la scuola. Intanto, possiamo sognare una città che in autunno si trasformi in una grande aula a cielo aperto tra parchi, musei e biblioteche dove i bambini e gli adolescenti si riprendano tutto lo spazio che è stato loro sottratto in questi mesi.

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